Cronaca / Bergamo Città
Domenica 12 Aprile 2020
Remuzzi: il primato dell’uomo?
«Si è perso il buon senso»
«Dietro al coronavirus c’è il primato dell’uomo sulla natura che ha finito per non rispettare più nemmeno i vincoli posti dal buon senso. L’aveva sottolineato tempo fa Papa Francesco nell’Enciclica “Laudato Sì”, lo dice adesso il ministro dell’ambiente tedesco: se non avremo attenzione all’ecosistema e al microambiente, e finché metteremo sempre gli interessi della nostra specie al centro di tutto le epidemie non si fermeranno».
Il prof. Giuseppe Remuzzi, uno tra gli scienziati italiani più conosciuti al mondo, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche «Mario Negri», richiama le responsabilità dell’uomo dietro la terribile pandemia che solo nella nostra provincia ha provocato quasi cinque mila vittime.
Andranno ripensati anche i rapporti anche con gli animali?
«Un’analisi pubblicata in questi giorni da Landscape Ecology fa vedere come la perdita delle foreste tropicali in Uganda mette la gente a rischio di avere contatti più vicini con animali selvatici, particolarmente i primati che trasmettono i virus all’uomo proprio come è stato per l’AIDS. E non è solo in Africa che succedono queste cose, succedono anche in altre parti del mondo. L’epidemia di COVID-19 dovrebbe quantomeno far ripensare ai rapporti fra l’uomo e gli animali selvatici».
E la scienza?
«La scienza non è mai stata ai primi posti nella considerazione del pubblico, ma nemmeno i politici nel fare le leggi tengono conto sempre delle ragioni della scienza. È così da noi, è cosi negli Stati Uniti. La scienza, prima di tutto, sperimenta, poi analizza in modo critico tutti i dati a disposizione, trova una spiegazione ad eventuali inconsistenze e la discussione è sempre aperta, senza pregiudizi, basata per quanto possibile sull’evidenza. La scienza si fonda sul dubbio, sul mettere sempre in discussione quello che si sapeva prima, sull’infrangere dogmi. Insomma, le verità della scienza non sono assolute, valgono in quel momento ma possono cambiare in rapporto alla tecnologia e alle nuove conoscenze. E ci sono casi, l’epidemia in corso è uno di questi, in cui nemmeno gli scienziati hanno le idee chiare».
Che idea si è fatto su Covid-19?
«Alla fine di dicembre era chiaro che l’epidemia di SARS-CoV-2 partita da Wuhan che aveva messo in ginocchio la provincia di Hubei e si stava diffondendo in tutta la Cina sarebbe arrivata da noi. Il primo problema che gli esperti si sono trovati ad affrontare è stato quello di ridurre la trasmissione tra la popolazione in modo da avere un numero di persone da trattare non tale da mettere improvvisamente in crisi la capacità degli ospedali di farvi fronte. È stato giusto impedire il traffico aereo tra Italia e Cina quando era chiaro che il virus veniva da Wuhan? Forse, ma di sicuro non sappiamo nemmeno questo. È probabile che chi era in Cina e voleva tornare in Italia (italiani o cinesi che fossero) sia tornato comunque. Quasi certamente utilizzando altri scali, molti sono tornati da Francoforte e altri da Mosca. E così il virus ha continuato a circolare per molte settimane senza che fossimo capaci di intercettarlo».
È stato giusto chiudere le scuole?
«Sembrerebbe di sì. Pensare che un bambino possa sempre lavarsi le mani in modo maniacale come dovrebbe fare chi non vuole infettarsi, starnutire nel gomito e non toccarsi gli occhi e la faccia è impossibile. Tra l’altro i ragazzi sono di solito in ambienti chiusi relativamente piccoli, come si fa a farli sedere a distanza uno dall’altro? Se stanno insieme si contagiano tra loro, se cambiano classe ne contagiano altri ancora, e a scuola ci sono anche gli adulti (insegnanti, quelli che preparano i pasti etc). D’altra parte ci sono delle evidenze importanti basate su pandemie precedenti che chiudere le scuole riduca fino al 50 per cento l’incidenza di nuovi casi. Ma ci sono anche degli aspetti negativi nel chiudere le scuole, e non solo il fatto che compromette una parte del programma di educazione dei ragazzi. E poi con le scuole chiuse i ragazzi stanno a casa dei nonni o con i nonni e così si mette a rischio la salute delle persone più anziane: i bambini trasportano il virus come tutti gli altri, loro non si ammalano ma contagiano gli adulti. Con i bambini a casa, gli infermieri - che sono quasi tutte infermiere e quasi tutte mamme - hanno problemi a conciliare le esigenze del lavoro con quelle della famiglia e questo compromette ancora di più l’organizzazione degli ospedali che in questo periodo soffre già moltissimo. Nonostante ciò le scuole le hanno chiuse quasi dappertutto, ma per molte delle ragioni discusse prima molti si chiedono se davvero i benefici superano i possibili danni».
E i tamponi? Farli a tutti? Non farli a nessuno? Farli a qualcuno?
«Adesso gli epidemiologi inglesi vorrebbero fare 60 milioni di test in sei giorni, ma questo significa acquistare reagenti e avere abbastanza tamponi per fare il test, mobilitare tantissimi laboratori, coinvolgere i medici di famiglia, gli uffici postali, altre compagnie come Amazon, per esempio. Da noi non sarebbe fattibile, ma dubito che questa cosa possa funzionare perché dopo aver testato 60 milioni di inglesi cosa si fa? Chi è negativo oggi può essere positivo domani e allora si ricomincia da capo dedicando soldi, energie e persone a fare il tampone? Forse la cosa migliore in realtà è focalizzarsi sulle categorie che sono a contatto con il pubblico, certamente medici e infermieri e personale che opera nelle organizzazioni di salute, certamente chi lavora nei servizi aperti al pubblico, le cassiere dei supermercati per esempio, chi lavora nelle farmacie, chi presta servizio sui mezzi pubblici, le forze dell’ordine e il personale dei cantieri che sono aperti comunque in emergenza».
E poi?
«Sarebbe importante fare anche da noi quello che è stato fatto in Corea: identificare tutte le persone che hanno avuto contatti con qualcuno positivo o ammalato e isolarlo per 15 giorni. Ma per far questo in Corea sono serviti 1800 team di cinque persone ciascuno, un’organizzazione impressionante fatta di “App” e droni per rintracciare tutte le persone, poi identificarle, fare loro il tampone e tenere in isolamento quelle che risultano essere positive. Noi lo sapremo fare davvero? Secondo un lavoro pubblicato su Lancet, il 13 marzo gli ospedali della Lombardia sono arrivati ad aver bisogno di 2500 posti di terapia intensiva - solo per malati Covid- che avevamo previsto sarebbero diventati 4000 ai primi di aprile; è stato proprio così. Ma intanto gli ospedali hanno dovuto stravolgere il loro modo di operare, trovare abbastanza medici e infermieri, acquisire posti in terapia intensiva, respiratori e personale. Se avessimo avuto tempo per prepararci avremmo potuto organizzarci molto meglio e molto prima. Negli Stati Uniti sì che l’hanno avuto il tempo, almeno due mesi. Ma nemmeno loro sono riusciti a organizzarsi come si sarebbe dovuto: adesso i medici sono disperati anche lì, non trovano più ventilatori e la strategia per costruirne, anche in un Paese ricco come il loro, si sta rivelando piena di difficoltà; tenete conto che loro di ventilatori ne hanno già 160 mila ma non bastano. La Germania che ne ha 25 mila di ventilatori, ne ha ordinati altri 10 mila da industrie interne che si sono convertite a fare questo».
Ma le epidemie si combattono con i farmaci?
«Certo che le epidemie non si combattono con i farmaci, per lo meno fino a che non c’è il vaccino; si combattono in mezzo alla gente, gli ospedali arrivano dopo. Quello che avremmo potuto fare, se ne avessimo avuto il tempo, poteva essere quello di mobilitare i 50 mila medici di famiglia del nostro sistema sanitario nazionale (che però sono liberi professionisti convenzionati e quindi lo strumento per organizzarli a fronteggiare l’epidemia non c’è) ma ammesso che ci fosse, la prima cosa da fare sarebbe stata quella di provvedere a questi medici tutti i presidi di protezione individuale che gli consentissero di andare a casa di chi non stava proprio bene in sicurezza, ma le protezioni non c’erano, e allora? Quello che si poteva fare lo si è fatto al telefono, altri a casa della gente ci sono andati senza protezione e molti di loro sono morti. Tenete conto che la Germania ha dieci volte più infermieri di noi e per rincorrere il virus casa per casa, come si dovrebbe fare, gli infermieri sono fondamentali, anche loro però devono avere le protezioni giuste se no li si sacrifica e basta. Ma nei Paesi che sono più avanti di noi, che hanno avuto più tempo, c’erano le protezioni individuali? In Inghilterra certamente no, negli Stati Uniti non pare proprio, “Should I Make My Own Mask?”, insomma mi devo fare la mia mascherina da solo? Scriveva il New York Times qualche giorno fa. Le epidemie si combattono in mezzo alla gente, ammesso che in ciascuna casa dove c’è un malato ci possa essere la sua brava bombola di ossigeno, ma di ossigeno non ce n’è abbastanza, la pandemia è arrivata troppo in fretta, troppi malati tutti insieme. Chi distribuisce l’ossigeno sta facendo miracoli ma non arriva dappertutto».
Non è che il resto del mondo ha fatto meglio di noi, dunque.
«“A una pandemia così non eravamo proprio preparati, lo saranno certamente gli inglesi” pensavo tra me e me qualche giorno fa. “A Londra c’è l’Institute of Hygiene and Tropical Medicine, dove lavorano i più grandi esperti di salute pubblica e i più grandi epidemiologi del mondo. Loro non si faranno certo cogliere impreparati di fronte a un dramma di queste proporzioni, avranno già previsto tutto”. Non è stato così, il direttore del Lancet il 28 marzo, nel suo abituale “Offline”, racconta come il sistema sanitario inglese si sia fatto cogliere completamente impreparato. “Dovevano assicurarsi per tempo di avere i farmaci, i sistemi di protezioni individuale, di avere abbastanza Ospedali dedicati, abbastanza respiratori, medici, infermieri, e invece?” si chiede Richard Horton - “dove sono il Chief Medical Officer, il Chief Executive Officer e il Chief Scientific Adviser che avrebbero dovuto avvertire immediatamente il pubblico?” e fare quello che abbiamo appena descritto? Loro avevano tutto il tempo per moltiplicare la capacità di fare tamponi e stabilire programmi di formazione e linee guida per proteggere il loro staff, quello del servizio sanitario nazionale. “I migliori epidemiologi, i migliori esperti di salute pubblica del mondo non hanno fatto niente di tutto questo” scrive il Lancet. Il risultato è stato caos e panico anche nel servizio sanitario inglese».
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