Remuzzi: Covid-19 non è un’influenza
«Ma può insegnarci molte cose»

Il professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Negri: la prima cosa da fare è mantenere la calma, i casi gravi sono pochi. Nel frattempo ci sta facendo capire quanto sia prezioso il nostro Servizio sanitario nazionale.

Se non fosse che si tratta di una pandemia che rischia di mettere in ginocchio il mondo intero, potrebbe persino essere il nome di un’«ibrida” di nuova generazione, di quelle che fanno tanto bene alla salute, lasciando l’aria pulita e profumata. Ma la Covid-19, la sindrome respiratoria acuta provocata dal coronavirus che tutti ormai conosciamo, è una cosa con cui c’è poco da scherzare. Il «reservoir» naturale, come si dice in termini tecnici, è il pipistrello ma prima di fare il salto di specie il virus è passato attraverso altri animali, anche se di preciso non sappiamo ancora quali (o quale). Sta di fatto che le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Ne parliamo con il prof. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri e scienziato tra i più conosciuti al mondo.

Allora, professore, questo virus è poco più di un’influenza?

«Secondo lei?».

Direi di no.

« Anch’io. Il problema è come possibile sia successo tutto questo, arrivare cioè a quella che sembra in tutto e per tutto una pandemia globale».

Ecco, appunto, com’è successo?

«Un po’ dipende dal fatto che il nostro ecosistema è dominato dall’uomo da troppo tempo, e così abbiamo creato le condizioni perché i virus, abituati a vivere negli animali, siano riusciti, mescolandosi tra loro, ad arrivare all’uomo, infettarlo e portare malattie. L’epidemia cui stiamo assistendo provoca una sindrome respiratoria acuta sostenuta da un Coronavirus (per ora il Sars-CoV-2, ma non è escluso che il nome possa cambiare ancora ) che è sì un virus nuovo, ma è soltanto uno dei tanti Coronavirus che l’umanità si trova ad affrontare, e non sarà nemmeno l’ultimo che viene dagli animali».

Il virus di Covid - 19 viaggia più veloce di quanto abbia fatto il coronavirus della Sars. Ma se la SARS che pure veniva dalla Cina ed era sostenuta da un coronavirus, è sparita nel giro di un anno, sarà così anche per Covid-19?

«Non è detto. Per provare a rispondere possiamo riferirci alle epidemie precedenti. L’esperienza con i Coronavirus del passato rassicura: il numero di infetti aumentava d’inverno e poi tendeva a diminuire, un po’ come fa l’influenza stagionale per poi ripresentarsi eventualmente l’anno dopo. I Coronavirus che conosciamo da tempo sono quelli responsabili di raffreddore, faringiti e bronchiti cose che passano da sole, ma poi ritornano perché quei Coronavirus non stimolano una grande risposta immune. Abbiamo visto che al contrario degli altri Sars-CoV-2 può provocare polmoniti molto gravi ma condivide con gli altri Coronavirus, meno pericolosi, la difficoltà a stimolare una risposta immune».

Come possiamo difenderci?

«La cosa più importante è mantenere la calma, la maggior parte di quelli che si ammalano hanno una forma di malattia lieve, certo ci sono casi severi, ma per fortuna non sono così frequenti. Il modo più efficace di proteggersi è anche il più semplice: lavarsi spesso le mani con acqua e sapone o con soluzioni a base di alcol (i gel vanno bene ma bisogna strofinarsi accuratamente le mani per almeno 20 secondi con un gel che deve contenere almeno il 60 per cento di alcol). Non portarsi le mani alla bocca e non toccarsi gli occhi, coprirsi la bocca con un fazzoletto a perdere quando si starnutisce o si tossisce, o farlo nell’incavo del braccio. Anche il telefono cellulare è un vettore importante di contagio, e andrebbe igienizzato almeno ogni tanto».

E le mascherine?

«La mascherina serve solo a chi è stato infettato dal virus per non diffonderlo ma non a chi sta bene. È di questi giorni la notizia riportata dal New York Times che il Surgeon General – una specie di autorità che negli Stati Uniti dà consigli di salute in condizione di emergenza a cui tutti si riferiscono – ha chiesto con forza al pubblico di non comperare mascherine perché questo sottrarrebbe risorse a medici e infermieri che invece ne hanno bisogno, sempre».

E il tampone? Tutti lo vogliono , anche chi non ha alcun disturbo e non viene da zone a rischio né ha mai frequentato nessuno che avesse la malattia.

«Questo è davvero sbagliato. Il tampone va fatto a chi ha i sintomi e vive o ha frequentato zone dove sono stati documentati focolai della malattia. Chi non ha disturbi e non ha fattori di rischio il tampone non lo deve fare; se lo facessimo a tutti poi non ne avremmo più per chi ne ha davvero bisogno. Già in questo momento le richieste sono così tante che i tempi per avere una risposta dal test arrivano in 36 ore, i tempi utili dovrebbero essere invece fra le 2 e le 4 ore. Una buona idea è tenersi in casa i farmaci di cui si ha bisogno normalmente, potrebbe arrivare il momento in cui è necessaria la quarantena ed è bene avere a disposizione quello che serve e lo stesso per i disinfettanti. E’ importante pulire con l’alcol le superfici che si frequentano di solito in ufficio o a casa, questo vale anche per telefoni cellulari e tablet».

E i bambini?

«Per quanto riguarda i bambini basta prendere le stesse precauzioni che si prendono per l’influenza: lavare spesso le mani, evitare che frequentino luoghi affollati e soprattutto averli vaccinati o vaccinarli per l’influenza (vaccinare i bambini è un modo per proteggere gli adulti anche contro la polmonite batterica). La buona notizia è che i bambini si infettano raramente, il perché di preciso non lo sappiamo ma potrebbe anche essere il risultato di averli vaccinati per il morbillo (non si può escludere che aver fatto la vaccinazione contro il morbillo fornisca qualche forma di protezione). Ai bambini diamo un consiglio che è tutto il contrario di quanto si dice di solito: per qualche settimana meno giochi all’aperto e più tv».

E i casi più gravi?

«Meritano un discorso a parte e a Bergamo tutto questo lo tocchiamo con mano, come del resto a Lodi e a Cremona. Siamo di fronte a una sfida senza precedenti, dobbiamo affrontare l’emergenza con senso di responsabilità e coraggio e farlo subito specialmente nelle zone vicine a quelle più colpite - Alzano e Nembro - con l’obiettivo di limitare il più possibile il diffondersi del contagio. L’ospedale Papa Giovanni sta facendo uno sforzo impressionante per poter accogliere tutti i malati positivi al Coronavirus che hanno difficoltà respiratorie (non tutti hanno un tampone positivo perché il test non è infallibile e poi dipende da quando lo fai). E questo vede impegnati tutti i reparti dell’ospedale in una forma di collaborazione virtuosa mai vista prima. Non solo ma la Regione ha già individuato l’ospedale di Seriate come un centro insieme a Lodi e a Crema che sarà trasformato in un “presidio a vocazione Coronavirus”: è un provvedimento estremamente importante perchè l’intervento precoce, con sistemi di assistenza respiratoria non invasiva “Cpap”- dicono i medici – (Continuos Positive Airway Pressure – una specie di casco che aiuta i pazienti a respirare) riduce di molto la necessità di ricorrere alla Terapia intensiva».

Aspetti sanitari a parte, cosa ci insegna questa pandemia?

«Intanto Covid-19 ci fa toccare con mano tante delle cose che abbiamo sempre pensato, e che abbiamo anche osato scrivere ma che pochi hanno preso sul serio. Per esempio quanto sia prezioso il Servizio sanitario nazionale e quanto sia importante che non sia sbilanciato troppo verso la sanità privata, che invece dovrebbe intervenire dove il pubblico è carente, proprio come sta succedendo in questi giorni a Bergamo e come avrebbe sempre dovuto essere».

Solo questo?

«Il Coronavirus ci sta insegnando anche che il medico di famiglia deve tornare ad essere il perno del nostro Servizio Sanitario Nazionale. Se sospetti di aver contratto il Covid-19, il tuo medico di famiglia è il primo da contattare per telefono e lui saprà darti il consiglio giusto: se puoi startene a casa, a letto, tranquillo, con un po’ di Tachipirina o se devi fare il tampone. Lo capirà in base ai sintomi ma avrà bisogno di sapere anche dove sei stato nei giorni precedenti e che persone hai incontrato».

Agli ospedali ha insegnato qualcosa?

«L’esperienza del Coronavirus ha messo in luce tutti i problemi dei piccoli ospedali dove ci lavorano medici e infermieri bravi e bravissimi, degli eroi certe volte ma non basta, per affrontare emergenze e casi complessi ci vuole un’organizzazione che solo i grandi ospedali possono avere (in un grande ospedale un medico che ti aiuta lo trovi sempre), medici e infermieri qualificati per certe attività e grandi apparecchiature - e adesso tutti se ne rendono conto - per le le quali servono competenze: ingegneri, matematici, fisici che non si possono avere dappertutto».

E a tutti noi che in ospedale ci andiamo ogni tre per due?

«Il Coronavirus ci ha fatto capire, o meglio ha fatto capire a chi non lo sapeva già, che al Pronto Soccorso ci si deve andare quando serve. Non dimentichiamoci che nei primi sei mesi del 2019 meno del 10% di chi veniva visitato al Pronto Soccorso degli ospedali di Milano ne aveva davvero bisogno (codici rossi e codici gialli, e quelli del codice rosso erano meno dell’1%.) e non c’è ragione che non sia così anche a Bergamo».

Lo fa un saluto ai no-vax?

«Certo. Il Coronavirus ha messo in crisi i “no-vax” e le loro strampalate teorie. Ed è bene che gli ammalati sappiano che il vaccino l’avremo nel giro di un anno, ma se non ci fosse la ricerca sugli animali non l’avremo mai».

E per la Cina nemmeno una parola?

«In generale sarebbe bene - come suggerisce il professor Wang Linfa, uno dei maggiori esperti di virus zoonotici – “che l’uomo lasciasse stare i pipistrelli”. Il virus di Covid-19 è vecchissimo, ma la diffusione tra gli uomini è recente e questo dipende dalla vendita di animali vivi, dalla promiscuità tra loro, dal tenerli uno sopra l’altro nei mercati, Insomma da abitudini tribali in un Paese che per altri versi – in scienza e tecnologia - sta superando quelli più avanzati».

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