Prof scopre il tumore e combatte
«Non spreco le energie in rabbia»

Paola Cornero. Dalla diagnosi all’impegno nel volontariato: «Nella cura ho ricevuto molto, desidero restituire».

C’è chi sprofonda da solo nel suo deserto, e chi sceglie di reagire con forza, senza perdere il sorriso, come Paola Cornero, che da 5 anni convive con un tumore al seno metastatico, ma insegna Lettere all’istituto Paleocapa di Bergamo, ed è anche neo-presidente dell’associazione Amiche per mano, attiva a 360 gradi nel mondo del volontariato. Sposata, madre di tre figli tra i 20 e i 27 anni, seguendo l’invito dello scrittore Robert Louis Stevenson «Tieni per te le tue paure, ma condividi con gli altri il tuo coraggio», ha superato la sua riservatezza e ha accettato di esporsi scrivendo contributi coinvolgenti per un blog de «La Repubblica» intitolato «Lottare, vivere, sorridere» dove donne con la sua stessa patologia raccontano la loro personale strada di resistenza. È venuta a patti con la sua timidezza per offrire sostegno ad altre pazienti con tumore al seno, e proprio per contribuire a questa battaglia di informazione e prevenzione, ha permesso alla fotografa Luisa Morniroli e alla scrittrice Cristina Barberis Negra di ritrarla per la manifestazione «Sorrisi in rosa», un progetto promosso dai senologi di Humanitas.

Tutte le forze per agire

C’è un mondo in quello scatto: negli occhi chiari di Paola si intuiscono anche gli spigoli, la sofferenza, gli ostacoli, ma come scrive Antoine de Saint-Exupery «ciò che rende bello il deserto è che da qualche parte vi è nascosto un pozzo» ed è proprio questo il messaggio del suo sorriso, pieno di una luce che attinge a un profondo senso di consapevolezza e di responsabilità.

«Ho perso tante amiche lungo il percorso – racconta, commossa –. Sono arrivata ad accettare la mia malattia, sono addirittura venuta a patti con l’idea della mia morte, ma non riesco a sopportare il dolore degli altri. Questo mi spinge a investire tutte le forze per agire e impegnarmi ad aiutare donne come me, soprattutto le più deboli, quelle che non hanno voce. Fino a qualche anno fa dopo una diagnosi di tumore al seno metastatico c’erano solo cure palliative, oggi esistono terapie efficaci e la speranza di vita a 5 anni è cresciuta da 0 al 22%, o addirittura 35% secondo altri studi. La ricerca va avanti: se in passato si concentrava sul farmaco più efficace e cattivo oggi sceglie formule mirate su ogni paziente, in inglese si chiamano “tailored”, su misura. Ci sono buoni motivi per insistere e per coltivare la speranza».

Nel 2015 irrompe la malattia

La malattia è entrata nella vita di Paola nel 2015: «Due mie care amiche si erano già ammalate, una di loro purtroppo è morta. Questo, con tutto il carico di preoccupazione e dolore, mi rendeva molto attenta a non saltare i controlli. A un certo punto, però, mi sono accorta che nel mio seno c’era qualcosa di anomalo. Sono andata di corsa dal senologo e poi ho preso appuntamento all’Humanitas Gavazzeni per un’ecografia. A quel punto ho scoperto purtroppo che la mia sensazione era esatta e per di più il tumore era già molto diffuso. Non potevo crederci: mi ero sottoposta allo stesso esame meno di un anno prima, con esito negativo».

La professionalità dei medici

È scattato l’iter delle analisi di approfondimento: tac, scintigrafia, pet e altre ancora. «Mi stavo già preparando a iniziare la chemioterapia – ricorda Paola –, avevo tagliato i capelli e comprato una parrucca. Poi è emerso che quella terapia non era indicata, perché avevo già metastasi ossee e il mio tumore aveva un indice di accrescimento inferiore al 10 per cento. Ho scoperto quindi di essere una paziente al quarto stadio, un livello al quale la malattia non è curabile. Si può tenere sotto controllo, ma non guarire».

A quel punto a fare la differenza sono stati i medici: «Non dimenticherò mai le parole del mio oncologo e del chirurgo. Mi hanno salvato con la loro competenza e professionalità, con l’intervento di asportazione del tumore, ma anche con i loro modi attenti, con la loro sensibilità. Una diagnosi può devastare una persona sia dal punto di vista fisico sia psicologico. Una volta tornati a casa il pensiero continua a correre, si attacca a ogni termine, costruisce castelli. La reazione di un paziente dipende spesso dal modo in cui viene comunicata. Se mi sto impegnando così tanto nel volontariato è perché nel percorso di cura ho ricevuto moltissimo. Sento un profondo senso di gratitudine e il desiderio di restituire il più possibile».

L’associazione Amiche per mano

Il Consiglio dei Ministri nei giorni scorsi ha dato il via libera all’istituzione della Giornata del tumore metastatico, che si celebrerà ogni anno il 13 ottobre. Anche Paola si è impegnata molto per ottenerlo, con l’associazione Europa Donna: «Le pazienti con tumore metastatico ora sono più di 37 mila in Italia. Nel mese di ottobre, abitualmente dedicato alla prevenzione, moltissimi monumenti in tutta Italia, Bergamo compresa, si sono colorati di fucsia, compresa la Porta San Giacomo».

Paola affronta le difficoltà con atteggiamento positivo: «Non ho mai provato rabbia. La parte più difficile è stata accettare di non potermi liberare completamente del tumore. Le terapie hanno molti effetti collaterali ma cerco di tenerli a bada seguendo fedelmente i consigli degli specialisti».

Uno degli antidoti più importanti è l’attività fisica: «Cammino per un’ora e mezza al giorno nei parchi, lungo i percorsi pedonali, cercando sempre nuovi itinerari. Il movimento e l’aria aperta mi aiutano molto a mantenermi in forma e mi sgombrano la mente».

La nascita dell’associazione «Amiche per mano» ha aperto un nuovo orizzonte: «L’impulso a partire è del dottor Massimo Maria Grassi, responsabile della Sezione Unità Operativa di Senologia e Breast Unit presso Humanitas Gavazzeni. Una sera ha riunito un gruppo di pazienti, ci ha presentato e ha illustrato il progetto. Eravamo tutte perfette sconosciute all’inizio, ma ricordo di aver notato che queste donne erano tutte bellissime, fuori e dentro, e questo mi ha fatto sentire subito più fiducia nel futuro: non ero più sola nella mia lotta contro il tumore, avevo una ragione in più per non mollare». Paola su invito del dottor Grassi ha partecipato a numerosi corsi di formazione: «Sono davvero importanti per le volontarie, sia quando trattano argomenti scientifici sia quando si concentrano su aspetti delle relazioni, come l’ascolto. Ci sono diversi enti che li promuovono e io stessa continuo a frequentarli».

L’inverno scorso, durante la prima ondata, Paola ha dovuto affrontare anche il covid-19: «Mi sono ammalata alla fine di febbraio. Sono stata fortunata: mio marito è un medico e mi ha curata con sollecitudine e attenzione. La malattia, fortunatamente, non si è aggravata tanto da rendere necessario il ricovero in ospedale. Per oltre un mese, però, sono rimasta confinata in camera mia, tenendo a distanza la mia stessa famiglia. Proprio in quel periodo è morto mio padre, che era ricoverato in una residenza sanitaria assistita. Non ho avuto la possibilità di salutarlo né di dirlo di persona a mia madre, che abita accanto a noi, al piano di sotto. Ognuno era rinchiuso nel suo appartamento, è stato brutto ed estremamente faticoso». Paola non ha sofferto per la mancanza di appuntamenti e controlli durante la pandemia: «I medici – sottolinea – ci hanno chiamato a casa in occasione di visite importanti, siamo sempre riuscite a mantenere un buon livello di comunicazione, quando era necessario andavamo comunque in ospedale, rispettando le norme di sicurezza». Anche i legami instaurati grazie all’associazione hanno reso questo periodo più sopportabile: «Le volontarie in tempi normali sono sempre presenti accanto alle pazienti della Breast Unit quando ricevono l’esito dell’esame istologico, in corsia dopo l’intervento, nelle sale dove vengono eseguiti i trattamenti di chemioterapia. Questo fa sì che nascano amicizie forti e profonde, che poi restano vive anche da lontano, com’è accaduto nei mesi di lockdown. Il valore aggiunto che possiamo offrire nasce dalle nostre esperienze personali. Mostriamo con la nostra presenza e la nostra storia che la vita può riprendere dopo un tumore, e che se ne può trarre addirittura qualcosa di bello».

Mantenere la femminilità

Secondo Oprah Winfrey, «il vero significato del coraggio è avere paura – e poi, con le ginocchia che tremano e il cuore che batte, fare comunque il salto». Paola ha deciso di fare il suo salto per aiutare gli altri: «La malattia, come dico sempre ai miei studenti, capita, ma tocca a noi decidere come reagire. L’unica cosa che si può fare a quel punto è ragionare su come lasciarsi trasformare da essa. Se sprecassi le mie energie in rabbia, chiusura e rancore non otterrei niente, ma incanalando la sofferenza in energia positiva per me stessa, riesco ad aiutare gli altri e posso anche lanciare un messaggio di impegno civile».

L’associazione «Amiche per mano» collabora con «The Bridge for Hope» per attivare all’Humanitas un servizio di estetica oncologica per le pazienti della Breast Unit: «Questo tumore spesso fa sentire le donne mutilate nella loro femminilità. Anche trattamenti semplici come un massaggio, il trucco, un aiuto per sistemare le sopracciglia o un turbante colorato per coprire la testa nuda possono contribuire a recuperare fiducia in se stesse». La pandemia ha rallentato le iniziative, ma non le ha fermate: «A ottobre, sempre in collaborazione con The Bridge for Hope si è svolto il Giro in rosa, un’attività sportiva condivisa in modo virtuale, abbinata a una raccolta fondi. Un modo per promuovere la prevenzione e l’idea dello sport come strumento di aggregazione e condivisione attraverso i social media». La comunicazione digitale per Paola è stata una delle conquiste fatte per l’associazione: «Non avevo profili social, ora invece amministro la pagina Facebook di Amiche per mano. Aiutare gli altri dà senso alla mia malattia. Cerco di trasmettere anche attraverso i post un messaggio di speranza: è un peccato perdere energie con rabbia e rimpianti, bisogna imparare ad affrontare la vita giorno per giorno».

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