«Occorre maggior fiducia e prossimità per opporsi all’egoismo imperante»

L’INTERVISTA. Il Vescovo monsignor Beschi riflette a margine dell’Assemblea della Cei della scorsa settimana. «La presenza della Chiesa non è venuta meno, ma la si deve raccontare in modo nuovo». «Sbaglia chi irride i giovani». Lavoro e figli temi cruciali.

«Occorre più fiducia di fronte alla crisi. Non basta proteggersi e cercare di star bene solo con se stessi. Se ci fosse maggior prossimità, allora forse molte cose cambierebbero e probabilmente ci sarebbe anche una vera propensione a mettere al mondo più figli». Monsignor Francesco Beschi ragiona al termine dell’Assemblea generale dei vescovi italiani, dove il card. Matteo Zuppi ha lanciato una sorta di appello alla Chiesa italiana ad essere più presente nel dibattito culturale e politico ed ad alimentare un clima diverso con relazioni più significative tra le persone per uscire dall’inverno demografico e per ritrovare un senso più compiuto di comunità nel Paese.

Mons. Beschi, cosa ha voluto dire il card. Zuppi alla Chiesa italiana?

«Ha inteso sottolineare il senso profondo della Chiesa nella vita del Paese e ha poi insistito sulla necessità di tornare al messaggio evangelico».

Sembrerebbe un’ovvietà…

«Sì, ma non lo è. L’ovvietà è dar per scontata la fede nel nostro Paese. Non è più così e occorre ricostruire, spiegare di nuovo le parole del Vangelo necessarie alla nostra vita personale e comunitaria. Oggi nulla può essere dato per scontato».

L’appello è sempre quello di Giovanni Paolo II all’inizio del suo Pontificato: «Non abbiate paura»?

«Esattamente. La Chiesa non si deve chiudere in un recinto, ma deve attingere con decisa consapevolezza alle sorgenti che giustificano la sua missione. Il card. Zuppi ha fatto una disamina sincera della situazione del Paese, delle prospettive nazionali, dell’orizzonte europeo, di ciò che comporta il no alla guerra e la ricerca di strade per la pace».

C’è una Chiesa ancora molto radicata e significativa nei territori ma ciò appare poco. C’è il timore a parlare di più di politica e di sociale?

«Domanda legittima. Oggi il metodo di rappresentazione di cosa fa la Chiesa deve essere sviluppato in forme diverse dal passato. Le condizioni sono cambiate. La Chiesa non aveva bisogno di rappresentarsi o di spiegarsi. La sua presenza era quasi naturale e rilevante nell’orizzonte quotidiano della vita per la stragrande maggioranza della popolazione. Oggi la presenza della Chiesa non è venuta meno, né è meno significativa, ma ha bisogno di narrarsi, di dire di più e meglio quello che fa e quello che pensa. Credo occorra una narrazione positiva, che non significa rinunciare ad una revisione critica del proprio operato, ma bisogna superare una narrazione un po’ troppo depressiva, nonostante i tanti riconoscimenti che arrivano dal mondo laico. A volte basta uno scandalo, anche piccolo, per oscurare tutto. Gli scandali, grandi o piccoli, vanno affrontati, ma non devono colpire il grande lavoro, che sorprende sempre tutti, che la Chiesa porta avanti nelle parrocchie, negli oratori, con la Caritas, le sorprendenti opere diocesane, le comunità religiose, le associazioni, i movimenti, i gruppi».

Zuppi ha lanciato un vero e proprio appello a confrontarsi di più con gli intellettuali laici e con la cultura di massa…

«È stato un appello importante e le posso dire che ha scosso i vescovi. Ho partecipato con quella della settimana scorsa a ventuno assemblee generali e il dibattito seguito all’introduzione del cardinale presidente è stato molto vivace, anzi tra i più vivaci ai quali ho partecipato in tutti questi anni. I temi della cultura e della comunicazione sono molto avvertiti e i vescovi sono decisi ad affrontarli, ma senza separarli dall’esperienza reale. Noi facciamo cultura nella misura in cui viviamo con creatività la nostra missione. E ciò significa non ritirarsi rispetto alle piazze, alle agorà culturali. Ogni interlocuzione è importante. Non c’è solo il dibattito sul rapporto tra cattolici e politica. Dobbiamo fare sentire pubblicamente la nostra voce anche nelle discussioni culturali. L’invito a non avere paura è ricorrente, e non solo da parte del Papa. Nell’ultima visita “ad limina” pochi mesi fa dei vescovi lombardi, su questo punto ha particolarmente insistito il card. Tolentino, prefetto del Dicastero vaticano della cultura e dell’educazione. Stare dentro i contesti complessi del dibattito culturale. E poi non aspettarsi che la gente semplicemente corrisponda ai nostri inviti. Dobbiamo noi andare là dove le persone comunicano, discutono, sperimentano, vivono”.

Qual è il punto cruciale?

«Migliorare le relazioni tra le generazioni, giovani, adulti, anziani. Allargare gli orizzonti, rimettere in carreggiata le parrocchie, che sono ancora molto significative, ma spesso si occupano della loro organizzazione. Stimolare speranza, fiducia, allargando gli incontri e aprendo di più le porte».

E le questioni concrete?

«Il lavoro e i figli. Hanno sorpreso tutti i dati Istat sul desiderio di famiglia e figli dei giovani, in un contesto dove tutto è precario e molto incerto. I giovani oggi vanno all’estero, stanchi di essere condizionati da una realtà che li mortifica. Non è vero che non vogliono lavorare. Pongono il problema del lavoro totalizzante, dicono che c’è anche altro nella vita. Chi li irride sbaglia. Vanno ascoltati perché sono alla ricerca di un senso della vita, si interrogano sul futuro, e anche sulla spiritualità. Sono preoccupati della pace molto più noi. Così come dell’ambiente. Il rischio è che tutto ciò si spenga. Per questo motivo meritano attenzione da parte degli adulti. Dobbiamo ascoltarli con più attenzione e non solo il tempo di un mattino, perché se li ascoltiamo e cogliamo la loro provocazione possiamo insieme contrastare l’incertezza, la precarietà, la sfiducia che si respira e che condiziona ogni scelta di futuro, compresa quella di fare più figli. La Chiesa e la fede possono offrire un grande contributo nell’alimentare la fiducia».

Ma oggi fiducia significa solo cercare di star bene individualmente come antidoto alla crisi…

«È esattamente così, ma è drammatico».

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