Cronaca / Bergamo Città
Venerdì 15 Maggio 2020
Malato nella foto sul New York Times
È guarito e il fotografo è passato a trovarlo
Autista di Cenate Sotto immortalato in uno scatto finito sulla prima pagina del giornale più prestigioso degli Stati Uniti. «Non mi ero nemmeno accorto, quando me l’ha fatto non ero cosciente». A fine aprile l’incontro.
C’è una luce giallognola, malata, capace da sola di rendere quale fosse l’atmosfera al capezzale di un malato di coronavirus nelle case bergamasche, in quella foto – strepitosa - finita dritta sulla prima pagina del New York Times. Lui, Claudio Travelli, 60 anni, di Cenate Sotto, autista dell’Italtrans, aveva lo sguardo offuscato, l’espressione quasi implorante, la borsa del ghiaccio in testa, il saturimetro sull’indice della mano destra e il corpo celato da un drappeggio tutt’altro che caravaggesco, frutto delle pieghe di un copriletto dei più comuni. Sopra, l’immagine di una Madonna che lo osservava severa dall’alto; accanto, le due figlie e i volontari della Croce Rossa di Alzano arrivati per portarlo in ospedale.
Era il 16 marzo, il periodo più funesto in termini di decessi e quella foto rischiava di essere il suo epitaffio. Ma il signor Claudio ha resistito e, dopo tre settimane di degenza e 33 di isolamento, è guarito. «L’esito del secondo tampone me l’hanno consegnato l’8 maggio: negativo pure quello», annuncia con sollievo al telefono.
L’uomo che l‘ha reso famoso, il fotoreporter torinese Fabio Bucciarelli, è tornato a trovarlo un giorno di fine aprile, gli ha scattato alcune foto che forse finiranno in un nuovo lavoro. I grandi fotografi si voltano sempre indietro, ripercorrono i propri passi, non fuggono come ladri dopo aver arraffato l’immagine che renderà loro gloria e denaro. «Aveva tenuto i contatti con mia figlia Michela, ha chiesto se poteva passare a trovarmi e s’è presentato qui un giorno – racconta Claudio -. Mi ha chiesto come stavo, abbiamo parlato un po’, poi lui mi ha fatto qualche foto».
Quel 16 marzo Bucciarelli era al seguito della Cri d Alzano per conto del New York Times. Era il secondo dei 13 giorni passati con loro a entrare nelle abitazioni di chi chiedeva soccorso. «Cercavo di entrare all’interno del virus e di capire come lo viveva la gente – ha spiegato il fotoreporter in un’intervista televisiva all’ex direttore di Repubblica Mario Calabresi -. Fin lì avevo visto fotografie di piazze vuote, di gente con le mascherine, però non riuscivo a capire che cosa volesse dire vivere da dentro questa pandemia. Volevo che la gente fuori capisse la pericolosità del virus. Quando parli di Covid, parli di un nemico invisibile. Fino a quando non lo vedi, fino a quando qualcuno della tua famiglia non comincia a soffrire. Ecco, io volevo che la gente fuori sapesse cosa vuol dire ammalarsi e che a raccontarlo fossero le famiglie di un malato».
Il fotoreporter: parlavo coi parenti
La quasi totalità delle famiglie ha capito l’intento di Bucciarelli e l’ha lasciato scattare. Ma non è stato automatico, perché chiamare un’ambulanza per un’emergenza e vedersi capitare in casa uno con la macchina fotografica che riprende momenti di intimità particolarmente delicata, può creare un comprensibile imbarazzo. Il fotoreporter ha sottolineato che non entrava da corpo estraneo, ma empaticamente. «Non mi mettevo subito a fotografare – ha detto a Calabresi -, prima parlavo con i familiari, spiegavo l’obiettivo del mio progetto e solo alla fine chiedevo il permesso di fare degli scatti. In poco tempo, tra l’altro, perché l’intervento della Croce Rossa intanto era andato avanti e spesso mi trovavo a scattare al termine».
È andata così anche in casa Travelli. «Io quel giorno non mi sono accorto che c’era un fotografo. Non ero lucido, avevo febbre a 39,5° e la saturazione al 70%, bassissima – ricorda Claudio -. Mi hanno portato all’Humanitas Gavazzeni, sono stato un giorno e mezzo al pronto soccorso, poi mi hanno trasferito in terapia intensiva. Ne ho visti morire tanti, purtroppo, di quelli in stanza con me. Il primo, dopo due giorni, è stato un medico di Mozzo che era al pronto soccorso insieme a me».
Al sessantenne applicano il casco C-pap, per facilitargli l’ossigenazione del sangue. «Un’esperienza bruttissima, chi non ha provato non sa cosa vuole dire», osserva. Poco alla volta le condizioni dell’autista sono migliorate e, tre settimane più tardi, è stato dimesso. La convalescenza l’ha passata in un appartamento libero nella palazzina di famiglia. «Ora sto bene, torno al lavoro il 25 maggio – dice -. Ma ero arrivato quasi al capolinea, vedevo una luce in fondo al tunnel. Col tempo passerà, ma che botta». E la foto? «È molto bella, ringrazio Fabio. Gli amici dicono che sono diventato famoso e chissà che barca di soldi ho preso», sorride. E questa ritrovata allegria vale un terzo tampone negativo.
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