Lutto a L’Eco di Bergamo, addio all’ex direttore Carrara: sabato i funerali a Nembro

IL RITRATTO. È morto a 88 anni Luigi «Gino» Carrara, che diresse il giornale - dove lavorò per oltre 40 anni - dal 1989 al 1995. Visse gli anni d’oro al fianco di monsignor Spada. Non ha mai amato i riflettori, dedicò tutte le sue energie al lavoro. Sabato 29 giugno, alle 11, nella chiesa parrocchiale di Nembro l’ultimo saluto.

Luigi «Gino» Carrara è morto giovedì sera, 27 giugno, all’ospedale di Piario, dove era ricoverato da qualche giorno. Il 21 giugno aveva compiuto 88 anni. Originario di Nembro, è sempre stato profondamente legato al suo paese d’origine. Ma L’Eco di Bergamo, dove lavorò per oltre 40 anni, è sempre stato la sua vocazione. Dopo decenni a fianco di monsignor Andrea Spada, di cui fu intelligente e fedele interprete, prese da lui le redini della direzione, che condusse dal 1989 al 1995. I funerali si terranno sabato 29 giugno, alle 11, nella chiesa parrocchiale di Nembro.

Gino Carrara, successore di monsignor Andrea Spada alla direzione de «L’Eco di Bergamo», appartiene a quel nucleo storico che ha programmato e attuato la modernizzazione del giornale, facendone il foglio provinciale in testa a livello nazionale: foto a colori fra i primi in Italia, nuove tecnologie in tipografia sotto la ferrea direzione di Paolo Tarchini, foliazione aumentata con ingressi nei territori inesplorati fin lì dell’economia e dei nuovi flussi di costume della vita civile. Anni ’70-’80, la stagione aurea del quotidiano dopo le difficoltà patite durante la stagione del primo centrosinistra che avevano consentito all’agguerrito concorrente «Giornale di Bergamo» di guadagnare copie dove già era tradizionalmente forte, cioè nella cintura urbana.

Una squadra di prima classe quella di cui Carrara faceva parte: Giancarlo Zilio, i fratelli Renato e Amanzio Possenti, Pino Capellini, Sandro Vavassori, solo per citare i nomi più illustri. Gli anni d’oro de «L’Eco», quelli in cui il giornale di provincia esce dal perimetro della minorità provinciale abbattendone i confini e rivendicando un proprio ruolo, per proporsi – come si dirà poi – quale giornale glocal. Capace di interpretare il territorio e di dialogare con l’esterno, di collocarsi su una traiettoria che scrutava il mondo con i propri occhi. Pensate un po’: Spada non ha mai inclinato verso il modello «Corriere della Sera», semmai ha orecchiato alla prosa lineare della cronaca della «Stampa» di allora e alla sintesi acrobatica fra il «Giornale» di Indro Montanelli e la «Repubblica» di Eugenio Scalfari. Eppure, come i grandi giornali d’opinione, fattorini e autisti de «L’Eco» erano in divisa d’ordinanza e i cronisti disponevano della macchina di servizio.

Ecco, di questa estetica della forza persuasiva e raffinata di un giornale, Gino – come tutti lo chiamavano – ha sempre fatto a meno. Tutti i giorni in bici, umile servitore di una causa di cui si sentiva parte integrante, non invadendo ruoli altrui: il servizio al giornale, con la devozione del militante, senza tornaconto personale. In questo sta la sua originalità, la sua alterità rispetto alla comunità giornalistica, e in definitiva il suo essere: l’identificazione assoluta con i voleri, e con i capricci se vogliamo, del giornale. Un caso unico, irripetibile: spesso commovente, a volte incomprensibile anche a chi gli era amico. Allora la redazione stava all’ingresso del giornale e le plumbee macchine da scrivere battevano il suono duro e aggressivo dei ritmi di una cronaca vissuta: andava vista con gli occhi, occorreva scarpinare sul marciapiede. Non c’era la mediazione dei social, il vedere dal cellulare. Carrara è figlio di quel tempo, in cui il giornalismo da incursione corsara e guascona si fa professionale.

Il futuro direttore arriva da Nembro dove si fa le ossa come corrispondente dopo il «Sarpi» e poi approda in quel piccolo perimetro di quei solidi banconi, usciti da una storia battagliera, che hanno raccontato il divenire di Bergamo. Come tutti, si affaccia in punta di piedi sulla soglia del giornalismo ai margini della gerarchia per poi salire: più per cooptazione che per desiderio. Colleghi e amici, come quel Marco Nozza che poi diventerà una prima firma nazionale del «Giorno». L’uomo, con quegli occhiali dalle lenti oscurate, mantiene un tratto tutto suo, non conoscibile perfettamente all’occhio esterno, seminando nei suoi interlocutori qualcosa di intrigante. Non ama i riflettori, è anti protagonista per temperamento, gli va bene così. Soffre nel doversi raccontare: vive nella più assoluta discrezione. Chi scrive ha sempre pensato a una sua sofferta solitudine, protetta dalla sua indisponibilità alla competizione e dalla sua complicità con una esistenza naturalmente non conflittuale.

Il lavoro costituisce la sua dimensione esistenziale, alla quale dedica tutte le energie di cui dispone. Se Montanelli ha detto che fare il giornalista è sempre meglio che lavorare, Carrara ha dimostrato il contrario: accidenti, che lavoratore. Come giornalista è il tuttofare, svolgendo qualsiasi mansione: dalla Cronaca agli Spettacoli, dalla Cultura agli Interni-Esteri e alla Segreteria di redazione. Un uomo-macchina, come vogliono i vecchi manuali di giornalismo, attento alla cronaca minuta, quella sentimentale e di vicinanza, per poi confluire nella sintesi generale, un’intelligenza solitaria incompatibile con la notorietà. Quella tribù di giornalisti sconosciuti ai più, che costruiscono il giornale, ma che non ricevono gloria: per loro, più di altri, il pranzo non è gratis. Sono i dimenticati e i non citati, quelli che non si vedono, ma sanno che i successi altrui sono l’esito del loro lavoro tanto operoso quanto oscuro. La «cucina» del giornale, il che vuol dire avere cultura e possesso del mestiere, per poi poter impostare pagine, progetti editoriali, fiammate intellettuali. Servono competenza e familiarità con i fondamentali, equazione che stava nelle coordinate di Carrara. Non le dava a vedere, l’allora direttore, ma noi ne eravamo consapevoli.

La direzione de «L’Eco» gli piomba dopo l’era Spada: non può che esserne contento. Ne avverte tuttavia la responsabilità. Un macigno, perché a ridosso di un Grande il metro di misura verso chi veniva dopo era inevitabilmente quello. Carrara governa una fase di transizione complicata sul piano degli equilibri interni, mentre deve gestire, per un giornale come «L’Eco», la fine della Dc, della Prima Repubblica e la fase iniziale di Mani pulite e della Seconda Repubblica: non proprio una passeggiata. L’uomo si muove con equilibrio, conosce fin dove può spingersi e dove deve arretrare, ma in questo è anche aiutato dal fatto che, non avendo particolari frequentazioni politiche, ha un suo margine autonomo di manovra.

Un problema fisico lo costringe a dirigere il giornale da casa per alcuni mesi. Per anni, anticipando a modo suo lo smart working, arrivava in redazione con un paio di pagine già confezionate a casa. Carrara (celibe, viveva con la mamma) non conosceva le consuete scansioni esistenziali, se non quelle dettate dai ritmi del giornale. Ferie e riposi, di norma, gli erano imposti. Un autentico e inarrivabile stacanovista. E pensare che, a fin di bene, per la sua salute e la sua sicurezza, il vescovo Amadei gli impose di abbandonare la bici per venire da Nembro, invitandolo all’utilizzo dell’auto di servizio di cui evidentemente aveva pieno diritto. Niente da fare: docile, ma sulle sue cose irremovibile. A noi piace ricordarlo così: un amico e un giornalista non convenzionale, che ha anteposto il successo de «L’Eco» al primato personale.

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