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Cronaca / Bergamo Città
Sabato 22 Febbraio 2025
L’intervista al cardinale Pietro Parolin: «Tutti possono contribuire alla pace, ma le imposizioni rischiano di calpestare i diritti»
Il Segretario di Stato Vaticano. Le soluzioni alle guerre non devono mai essere imposte unilateralmente, «altrimenti non vi sarà mai pace giusta e duratura». L’intervista esclusiva al direttore de «L’Eco di Bergamo», Alberto Ceresoli.
Solo dopo averlo incontrato di persona si capisce perché, al di fuori del protocollo, preferisca farsi chiamare semplicemente «don Pietro». Perché il Segretario di Stato Vaticano, Sua Eminenza il Cardinale Pietro Parolin, è la quinta essenza dell’umiltà, di chi è convinto che quello è e che rappresenta, «è» perché Qualcun Altro lo ha voluto per lui, dentro quel «disegno» che Dio ha per ciascuno di noi. Il suo è quello di servitore della Chiesa universale, un prete fortemente ancorato allo spirito diocesano della sua Vicenza (è nato a Schiavon, un piccolo Comune ad una ventina di chilometri dalla città di Fogazzaro e Piovene), ma con la «testa» nel mondo, di cui segue - non senza angosce e preoccupazioni - le difficili sorti, in un momento storico particolarmente tortuoso, con l’umanità che troppo spesso, e con troppa leggerezza, lambisce il baratro di un conflitto nucleare. Sull’insegnamento di San Paolo, «spera contro ogni speranza», sapendo in cuor suo che la Verità e la Giustizia, alla fine, avranno la meglio. Ma aspettare non basta, bisogna che l’uomo si faccia esso stesso promotore di Verità e di Giustizia, attingendo al Vangelo e agli insegnamenti della Chiesa che - cita Papa Giovanni XXIII - «continuerà ad essere per tutti la fontana di acqua fresca del villaggio».
Particolarmente incline all’accoglienza, al dialogo e all’ascolto, «don Pietro» tesse ogni giorno invisibili fili di speranza per far sì che i popoli che animano la Terra - tutti i popoli - possano non solo convivere in pace e godere di pari opportunità di crescita, ma vedersi garantiti i diritti civili più elementari. Pur essendo uno «snodo» fondamentale nelle questioni diplomatiche più scottanti del pianeta, il Cardinale Parolin sta sempre un passo indietro rispetto alle luci della ribalta, preferendo muoversi per favorire incontri e incentivare mediazioni.
Preoccupato della crisi dei valori che ha investito il mondo occidentale, sprona l’Europa ad essere sé stessa per poter continuare «ad avere un posto centrale nelle sfide geopolitiche del nostro tempo», recuperando le radici storiche e culturali dei popoli europei
Preoccupato della crisi dei valori che ha investito il mondo occidentale, sprona l’Europa ad essere sé stessa per poter continuare «ad avere un posto centrale nelle sfide geopolitiche del nostro tempo», recuperando le radici storiche e culturali dei popoli europei. Tutti temi che il Cardinale Segretario di Stato Vaticano (a Bergamo il 22 febbraio per ordinare Vescovo monsignor Maurizio Bravi, Nunzio apostolico in Papua Nuova Guinea e Isole Salomone) tocca nell’intervista che segue, una delle pochissime che concede e per la quale «L’Eco di Bergamo» gli è profondamente grato.
Partiamo dalla notizia più bella dell’anno, la tregua nel conflitto israelo-palestinese, giunta dopo 15 mesi di guerra, costata la vita ad oltre 45mila persone. Cosa possiamo fare ora per aiutare questi due popoli?
«La tregua provvisoria è certamente una buona notizia sia perché si cominciano a vedere i suoi frutti, la liberazione degli ostaggi israeliani e un maggiore ingresso di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza, sia perché si spera possa essere l’inizio di un “cessate-il-fuoco” permanente, che metta fine alla sofferenza del popolo palestinese a Gaza e nel resto della Palestina. Le vittime sono state tantissime e ora bisogna dare segni di speranza ad entrambi: sia agli israeliani che ai palestinesi».
Quale ruolo possono avere oggi i cristiani in Medio Oriente?
«I cristiani in Medio Oriente non sono una “minoranza” ma una “componente” essenziale e imprescindibile. Sono parte integrante di quei popoli fin dalle origini del cristianesimo. Chiunque pensi che ci possa essere un solo lembo di quella terra senza i cristiani si sbaglia. Essi, inoltre, hanno sempre contribuito allo sviluppo e al progresso dei loro Paesi. Pertanto la Santa Sede chiede a tutti di coltivare e promuovere questo principio con convinzione, anche rilanciando un concetto di “cittadinanza” ancora più pieno ed effettivo in ogni Nazione».
Perché è importante riportare i pellegrini in Terra Santa? Immagino non sia solamente una questione economica.
«La Terra Santa è la patria terrena di Gesù, dove da sempre la comunità cristiana, in particolare i Francescani, custodisce e protegge i Luoghi Santi. Ogni cristiano dovrebbe potervisi recare liberamente e senza restrizioni. Per chi l’ha vissuto, il pellegrinaggio è sempre un’esperienza profondamente spirituale e coinvolgente, una occasione privilegiata per crescere nella fede e nell’amore a Nostro Signore, che ha voluto essere uno di noi per salvarci. Oltre a quelli in Israele e Palestina, vi sono anche i Luoghi nei Paesi vicini, come Egitto, Libano, Siria e Giordania. Qui sono stato ultimamente, al Luogo santo del Battesimo di Gesù, che è meraviglioso, così come al Monte Nebo. Proprio in questi giorni è aperta a Roma (fino al 28 febbraio nel Palazzo della Cancelleria - ndr) una mostra dal titolo: “Giordania: l’alba del cristianesimo”, davvero molto interessante».
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La Siria sembra aver impresso un corso diverso alla propria storia: che idea si è fatto?
«Gli eventi in Siria sono stati rapidi e per molti inattesi. Come ogni cambiamento, c’è bisogno di comprendere verso quale direzione si sta andando. La Siria, al momento, ha bisogno di buoni amici che la accompagnino lungo la strada dell’inclusività e della convivenza armonica tra i vari gruppi che formano la sua popolazione. Auspico che la Comunità internazionale, in particolare i Paesi vicini, aiutino la Siria a rimanere territorialmente integra, senza occupazioni di sorta, politicamente stabile, aiutando il processo costituzionale, e socialmente rinnovata, soccorrendo la popolazione nelle povertà che la guerra ha generato in questi lunghi anni».
La situazione venutasi a creare in Terra Santa (sperando che duri) non è purtroppo la stessa che sta vivendo l’Ucraina, al terzo anno di guerra. Crede che il neo presidente degli Stati Uniti possa riuscire nell’impresa di porre fine alla guerra?
«Tutti possono contribuire alla pace, ma le soluzioni non devono essere mai perseguite attraverso imposizioni unilaterali che rischiano di calpestare i diritti di interi popoli, altrimenti non vi sarà mai pace giusta e duratura».
La diplomazia internazionale sembra incapace di incidere in situazioni come queste. C’è un perché? Come dovrebbe essere riformata?
«La diplomazia internazionale spesso fatica a incidere efficacemente in situazioni complesse come quella del Medio Oriente per diverse ragioni. Una delle principali è la sfiducia e la paura reciproche, che portano a una polarizzazione crescente e impediscono la ricerca di soluzioni comuni. Inoltre, l’attuale clima internazionale è caratterizzato da una mentalità “da club”, in cui si preferisce dialogare solo con chi condivide le proprie posizioni, escludendo il confronto con opinioni diverse. Questo atteggiamento limita la capacità di mediare efficacemente nei conflitti. Per riformare la diplomazia internazionale e renderla più efficace, sarebbe necessario promuovere una “diplomazia della speranza”, come suggerito da Papa Francesco. Ciò implica un approccio che superi la logica dello scontro e favorisca il dialogo inclusivo, la pazienza e la costruzione di fiducia tra le parti. È fondamentale credere nel “multilateralismo” e rafforzare il ruolo delle istituzioni internazionali, come le Nazioni Unite, garantendo che possano operare in modo più efficace e rappresentativo».
Per riformare la diplomazia internazionale e renderla più efficace, sarebbe necessario promuovere una “diplomazia della speranza”, come suggerito da Papa Francesco. Ciò implica un approccio che superi la logica dello scontro e favorisca il dialogo inclusivo, la pazienza e la costruzione di fiducia tra le parti
Purtroppo gli ultimi Pontefici sono stati costretti dalla Storia a confrontarsi con il dramma della guerra e la speranza della pace. Papa Francesco afferma che «per fare la pace ci vuole coraggio», Papa Wojtyla aveva detto che «non c’è pace senza giustizia, e non c’è giustizia senza perdono». È per questo che è così difficile fare la pace oggi? Coraggio, giustizia e perdono non appartengono più alla società del terzo millennio?
«Fare la pace oggi è estremamente difficile perché, appunto, richiede coraggio, giustizia e perdono, tre valori che sembrano sempre più assenti nella società contemporanea. Infatti, l’affermazione di Papa Francesco che “per fare la pace ci vuole coraggio”, sottolinea come la pace non sia solo un dono da invocare – e lo è, prima di tutto! – ma pure il risultato di un impegno attivo che comporta sacrificio, dialogo e la volontà di superare divisioni profonde. Tuttavia, oggi il coraggio di negoziare viene spesso scambiato per debolezza, mentre la potenza militare e le dimostrazioni di forza continuano a essere privilegiate come strumenti di risoluzione dei conflitti. Inoltre, deve essere chiaro che la pace va costruita sulla giustizia. E quest’ultima sul perdono. La pace autentica non può esistere senza un ordine giusto. Troppe guerre nascono da disuguaglianze, violazioni dei diritti umani e squilibri economici che alimentano rancori e tensioni. Solo quando il coraggio, la giustizia e il perdono torneranno a essere vissuti come valori fondamentali, sarà possibile intraprendere un autentico cammino di pace».
Lei, Eminenza, richiama frequentemente due atteggiamenti del cuore – la fraternità e la solidarietà – che dovrebbero essere tratti istintivi e distintivi dell’uomo, eppure non sembra più così.
«L’impressione potrebbe essere quella, ma se penso alle nostre comunità, alle parrocchie, ai movimenti ai vari gruppi ecclesiali, e anche a realtà che non si richiamano espressamente alla fede cristiana, debbo riconoscere che vi sono tanti esempi di fraternità e solidarietà. E non può essere che così, perché io credo che altrimenti il mondo non andrebbe avanti. Spesso sono nascosti, non fanno rumore. Forse, anche a livello di comunicazione, dovremmo dare loro più attenzione e più spazio».
Tra ateismo pratico, populismo, analfabetismo religioso e religione «fai da te», quanto è difficile la vita della Chiesa? Fino a che punto il Vangelo riesce ancora ad essere sfidante?
«Lei tocca le grandi questioni che sfidano la Chiesa oggi e che non possono non inquietare il cuore di ogni credente e di ogni praticante. Leggevo, qualche tempo fa, che nella nostra Europa – parlo qui soltanto del nostro Continente – si è interrotta la trasmissione della fede alle nuove generazioni. Se così è, come non preoccuparci e non soffrire profondamente? Ma per grazia di Dio, non mancano fenomeni incoraggianti. Mi riferisco, ad esempio, al fatto che in Francia molti giovani chiedono il battesimo e molti che hanno abbandonato la Chiesa cominciano a tornare. Questa è la risposta più bella alla sua domanda se il Vangelo riesce ancora a essere sfidante. Ma forse l’interrogativo più corretto è di chiederci se noi cattolici permettiamo ancora, con la nostra testimonianza, con la nostra fede, speranza e carità, che il Vangelo continui ad essere “sfidante”. Abbiamo una grande responsabilità!».
Sul futuro del Cristianesimo tanti teologi riflettono sin dagli anni ’60 e in quel periodo Joseph Ratzinger parlò della Chiesa del futuro come una piccola minoranza creativa. Oggi, effettivamente, stiamo diventando sempre più un piccolo gregge. Ma è difficile, in ogni caso, prevedere come sarà il Cristianesimo di domani. Il Signore ci riserva sempre delle sorprese
Che futuro vede per il Cristianesimo? Potrà rigenerarsi?
«Sul futuro del Cristianesimo tanti teologi riflettono sin dagli anni ’60 e in quel periodo Joseph Ratzinger parlò della Chiesa del futuro come una piccola minoranza creativa. Oggi, effettivamente, stiamo diventando sempre più un piccolo gregge. Ma è difficile, in ogni caso, prevedere come sarà il Cristianesimo di domani. Il Signore ci riserva sempre delle sorprese! L’invito per noi è a non rassegnarci o lamentarci troppo, ma a cogliere le sfide del nostro tempo con un rinnovato impegno ed entusiasmo nell’evangelizzazione, convinti che, anche nell’epoca della tecnologia e della digitalizzazione, il Vangelo continuerà ad essere per tutti la fontana di acqua fresca del villaggio, come diceva il vostro e nostro Papa Giovanni XXIII. Perché anche le donne e gli uomini “tecnologici” e “digitalizzati” hanno sete…».
Affermazione della pace, difesa della vita, tutela dell’ambiente, fermare la corsa agli armamenti: la voce del Papa e della Chiesa sembra perdersi nel vuoto…
«La voce non si perde mai nel vuoto se pronunciata per annunciare il Vangelo, con la parola e con la vita. Sono tanti i semi che germogliano da questa voce che sembra perdersi nel vuoto: sono segni che sembrano soffocare di fronte alle molteplici realtà negative del nostro tempo e che talvolta rimangono volutamente invisibili al potere, ma che, con pazienza, portano frutto. San Giacomo ci invitava a imitare la pazienza dell’agricoltore, che “aspetta con costanza il prezioso frutto della terra” (5,7). Basti pensare, ad esempio, all’impatto che la Lettera Enciclica Laudato si’ ha avuto e continua ad avere nel dibattito internazionale, alle innumerevoli trasformazioni e agli svariati progetti che ne sono derivati, in tutto il mondo».
Giovanni Paolo Il si è battuto strenuamente per far sì che le radici cristiane fossero riconosciute dall’Europa. Oggi l’Europa non ha un’identità, conta nulla e i dazi preannunciati da Trump fanno pensare ad un ulteriore sfilacciamento dei Paesi che la compongono, o dovrebbero comporla. C’è forse qualche collegamento? Quale dovrebbe essere oggi il ruolo del «Vecchio Continente»?
«Nel processo di decisione in merito agli assetti dell’Unione Europea dopo il suo allargamento ai Paesi dell’ex-blocco sovietico nei primi anni duemila, vi fu un acceso dibattito sul riconoscimento delle radici giudeo-cristiane dell’Europa. Purtroppo, nel progetto della cosiddetta Costituzione Europea un tale richiamo non trovò posto e si preferì un blando accenno alle eredità culturali, religiose e umanistiche del Continente. Ciò ha contribuito all’affievolimento nei popoli europei del sentimento di appartenenza ad un progetto preciso, qual è quello dell’integrazione europea, e del senso di una chiara identità comune. Invece di “costruire in verticale” a partire da fondamenta profonde – le radici storiche e culturali dei popoli europei – si è scelto di sviluppare un’Europa “orizzontale” basata su principi e valori consensuali e contingenti. L’Europa contemporanea ha buoni anticorpi per resistere alle crisi e alle sfide del momento; ciò che le risulta più difficile è avere una progettualità sul futuro, che le permetta di affrontare con decisione i suoi principali concorrenti internazionali. Il futuro si costruisce sempre sul passato, mentre l’Europa ha una profonda paura – talvolta anche giustificata – del proprio passato, il quale ha avuto certo tanti momenti opachi, ma molti di più di luminosi. Per costruire l’Europa del futuro, che sappia affrontare le grandi sfide di lungo periodo, siano esse culturali, come le migrazioni, o commerciali, come i dazi, ritorna attuale il monito di San Giovanni Paolo II, ripreso anche da Papa Francesco: “Europa ritrova te stessa, sii te stessa!”. Credo sia questa la strada maestra per continuare ad avere un posto centrale nelle sfide geopolitiche del nostro tempo».
A questo proposito, mi permetto di aggiungere che anche i laici, uomini e donne, devono sentirsi corresponsabili nella promozione delle vocazioni sacerdotali, affinché nelle nostre comunità non manchino i ministri sacri, che annuncino la Parola, celebrino i Sacramenti e guidino pastoralmente il popolo a loro affidato
La Chiesa si sta aprendo sempre più al laicato e alla presenza femminile. Cosa vuol dire dare forza a queste presenze? Il laicato può essere la soluzione per rianimare le nostre parrocchie?
«Direi che oggi è in atto uno sforzo – di cui, ad esempio, il Sinodo sulla sinodalità è espressione – per approfondire in che modo i laici, ed in particolare le donne, possano essere sempre più protagonisti della vita e della missione della Chiesa, in forza del Battesimo e secondo la loro specifica vocazione. Il Santo Padre Francesco incoraggia questo cammino, a cui il Concilio Vaticano II aveva già dato un impulso fondamentale. E questo “protagonismo” deve trovare concreta applicazione in tutti gli ambiti ecclesiali, a cominciare dalla parrocchia. A questo proposito, mi permetto di aggiungere che anche i laici, uomini e donne, devono sentirsi corresponsabili nella promozione delle vocazioni sacerdotali, affinché nelle nostre comunità non manchino i ministri sacri, che annuncino la Parola, celebrino i Sacramenti e guidino pastoralmente il popolo a loro affidato».
Al di là dei continui attacchi cui viene sottoposta, la famiglia tradizionale resta la cellula fondamentale della nostra società. Solo che oggi è alle prese con mille problemi: difficile trovare una casa, difficile mantenere un lavoro, difficile arrivare a fine mese, difficile generare e crescere figli… Come vede oggi il ruolo della famiglia?
«Si tratta di un tema che purtroppo oggi viene molto spesso sacrificato, sia nei dibattiti privati che in quelli politici, a livello nazionale e internazionale, per portare avanti altre agende, a discapito proprio delle soluzioni ai problemi che le famiglie, soprattutto quelle più giovani, si ritrovano spesso ad affrontare da soli. Bisognerebbe ripensare tutte le politiche proprio da qui. Per quanto riguarda il ruolo della famiglia, ritengo di perdurante attualità le due definizioni tradizionali di essa: da un punto di vista ecclesiale “Chiesa domestica” e, più in generale, “prima e vitale cellula della società”. Con tutte le implicanze che ne derivano, a livello di rapporto tra i coniugi, di procreazione ed educazione dei figli, del ruolo pubblico, eccetera. È questo il Vangelo della famiglia che non dobbiamo mai stancarci di annunciare, nonostante le tante forze avverse che sperimentiamo. Mi auguro soprattutto che ci siano tante famiglie, consacrate dal Sacramento del Matrimonio, che dimostrano col loro esempio, anche se non esente da tentazioni e sacrifici, che è possibile vivere così. Non solo che è possibile, ma anche che è bello, è gratificante, dà gioia».
Tra i temi più discussi negli ultimi anni, c’è anche quello legato alle nuove generazioni e alle loro difficoltà nel crescere e nel trovare la strada del loro futuro. Come si pone la Chiesa di fronte alle giovani generazioni e come si pongono le nuove generazioni di fronte alla Chiesa? La Chiesa è ancora attrattiva verso di loro?
«Mi verrebbe da dire che la Chiesa non si pone di fronte, ma a fianco delle giovani generazioni, come, sull’esempio di Gesù, si pone a fianco ad ogni uomo lungo il cammino della vita. E d’altra parte rilevare che il rapporto della Chiesa con i giovani non è facile, pur se non conviene generalizzare, perché esistono molte situazioni positive. Io stesso ho visto gruppi di giovani seriamente impegnati nella vita cristiana ed ecclesiale. Per non parlare delle Giornate Mondiali della Gioventù. Ma, sfortunatamente, non sono moltissimi. Sento dire da molti che si tratta di un problema di linguaggio, per cui la Chiesa non riuscirebbe più a farsi comprendere dai giovani. Il Sinodo sui giovani del 2018, al quale anch’io ho partecipato, ci ha dato due indicazioni che mi sembrano importanti: per un nuovo rapporto della Chiesa con i giovani è importante ascoltarli e accompagnarli. Si tratta di cercare modalità concrete di attuazione. Spero che la prossima canonizzazione di Pier Giorgio Frassati e di Carlo Acutis mostrino ai giovani che la fede in Gesù Cristo e l’appartenenza alla Chiesa non toglie nulla alla loro voglia di vivere, al contrario!».
Sul Sinodo ho già detto alcune parole, nel senso di ravvivare la corresponsabilità di tutti i battezzati nella vita e nella missione della Chiesa, chiamati tutti cioè a diventare sempre più discepoli-missionari
Sinodo prima, Giubileo poi. Qual è il significato di questi due grandi eventi della Chiesa?
«Si tratta di momenti importanti per il cammino ecclesiale, poiché oltre a un confronto su temi di particolare importanza per la vita della Chiesa, sono l’occasione per incontrarsi e insieme trovare risposte pastorali alle odierne sfide che accomunano molte società. Sul Sinodo ho già detto alcune parole, nel senso di ravvivare la corresponsabilità di tutti i battezzati nella vita e nella missione della Chiesa, chiamati tutti cioè a diventare sempre più discepoli-missionari. Il Giubileo, poi, che ha per tema “pellegrini di speranza”, offre a tutti l’opportunità di guardare al futuro con uno sguardo della fede, consapevoli che è Cristo a condurre la Storia, e, a partire da qui, offrire al mondo ragioni per vivere e sperare».
Al centro del Giubileo ci sono i temi della speranza e della riconciliazione. Come dovremmo vivere questi due atteggiamenti nella nostra vita di tutti i giorni?
«Per quanto riguarda la speranza, in concreto, rimando alla Bolla di indizione del Giubileo, in cui Papa Francesco indica modalità pratiche di vivere la speranza, a livello personale e comunitario. Il Giubileo, poi, è tempo di riconciliazione, in quanto richiama al pentimento dei propri peccati e alla conversione, che è il cuore del Vangelo. Forse un cammino quotidiano – la vita di tutti i giorni, come lei diceva – è quello di riscoprire il senso del peccato e di fare l’esperienza liberante del perdono del Signore, soprattutto nel Sacramento della Penitenza. L’esperienza del perdono di Dio, Padre misericordioso, apre il cuore e la mente a perdonare il prossimo e a diventare testimoni di riconciliazione nel nostro mondo, segnato da odio, ritorsioni e vendette. San Francesco diceva: dove c’è odio, portare l’amore».
Sullo sfondo del Giubileo e delle speranze che lo animano, ci sono anche le attese di coloro che sono ai margini della Chiesa ma che vorrebbero viverla con maggiore presenza. Mi riferisco ai separati e ai divorziati, ma anche al complesso mondo di chi ha orientamenti diversi. Quali speranze si potrebbero aprire su questo fronte?
«Sì, la Chiesa non chiude le porte a nessuno, neppure a quanti faticano nel loro cammino di fede e di vita cristiana! Il Giubileo è occasione per ribadirlo ancora una volta e per cercare di tradurlo nella pratica. Si tratta, a mio parere, di adottare un approccio pastorale misericordioso e incoraggiante, al quale frequentemente ci richiama Papa Francesco, nella fedeltà all’insegnamento perenne della Chiesa, la quale, specialmente di fronte alle situazioni da lei citate, deve mostrarsi qual è, Madre e Maestra. Abbiamo tanto bisogno dell’aiuto dello Spirito Santo per trovare il giusto equilibrio».
Il Papa ha aperto una Porta Santa anche nel carcere di Rebibbia. Oggi la situazione delle carceri del nostro Paese è particolarmente drammatica: cosa possiamo fare per aiutare chi sta dietro le sbarre in condizioni dove non sempre la dignità è rispettata?
«Mi piace richiamare l’esortazione del Santo Padre formulata nella Bolla di indizione del Giubileo: “Si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi”. In più occasioni il Papa ha espresso l’auspicio che il carcere sia un laboratorio di umanità e di speranza. Certamente, la responsabilità e l’impegno maggiore per realizzare ciò riposano sulle istituzioni, ma sono convinto che anche ciascuno di noi può e deve fare di più, a partire da quel “ero in carcere e siete venuti a trovarmi” del Vangelo di Matteo, come, ad esempio, una maggiore attenzione al problema, forme di volontariato, eccetera».
Nella Sua visita a Bergamo, Lei si recherà anche a Sotto il Monte, paese natale di Giovanni XXIII. Cosa resta oggi della «Pacem in Terris», storica Enciclica del grande Pontefice bergamasco?
«Sono lieto, trovandomi a Bergamo per l’ordinazione episcopale di S. E. Mons. Maurizio Bravi, nominato dal Papa Nunzio Apostolico in Papua Nuova Guinea e Isole Salomone, di poter rendere una visita a Sotto il Monte. Vale la pena di ricordare che il Papa buono ha dedicato parte del suo ministero episcopale a servizio diretto della Sede Apostolica come Visitatore Apostolico in Bulgaria, Delegato Apostolico in Turchia e Grecia e Nunzio Apostolico in Francia. Circa la “Pacem in Terris”, il messaggio lanciato 62 anni fa da San Giovanni XXIII, benché in un contesto internazionale molto cambiato, è più che mai di grande attualità. Esprime l’anelito di pace che l’umanità porta in sé e indica i fondamenti della pace nella verità, nella giustizia, nell’amore e nella libertà. Questa è la strada per costruire la pace, ieri come oggi, oggi come domani».
Circa la “Pacem in Terris”, il messaggio lanciato 62 anni fa da San Giovanni XXIII, benché in un contesto internazionale molto cambiato, è più che mai di grande attualità. Esprime l’anelito di pace che l’umanità porta in sé e indica i fondamenti della pace nella verità, nella giustizia, nell’amore e nella libertà. Questa è la strada per costruire la pace, ieri come oggi, oggi come domani
Il prossimo dicembre saranno 60 anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II fortemente voluto da Papa Giovanni: cosa resta dell’eredità conciliare?
«Il Concilio Ecumenico Vaticano II è stato un evento di grazia per la Chiesa e per il mondo. I frutti del rinnovamento nella continuità che esso ha impulsato sono visibili in tutti gli ambiti della vita della comunità cattolica. Pensiamo alle quattro grandi Costituzioni, sulla Chiesa, sulla Parola di Dio, sulla Liturgia e sul rapporto Chiesa-mondo. San Paolo VI, nel discorso finale, riassumeva in modo generale l’eredità del Concilio come una chiamata “a maggiore responsabilità da parte di tutti, a maggiore preghiera, a maggiore vita interiore, a maggiore spinta di povertà, di abnegazione, di amore autentico alla Chiesa e alle anime, a maggiore fedeltà alla Parola di Dio”. Non è chi non veda che in questa direzione dobbiamo continuare a progredire. E in un’altra occasione rilevava che la storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio, riprendendo l’incipit della “Gaudium et Spes”, che afferma che la Chiesa condivide gioie, speranze, tristezze e angosce degli uomini d’oggi e soprattutto dei poveri e dei sofferenti. Tanti passi sono stati fatti in questa direzione e tanti ancora dobbiamo e possiamo farne».
In conclusione, prendendo a prestito una frase del filosofo della complessità Mauro Ceruti, possiamo dire che oggi la sfida del mondo globale è umanizzare la modernità?
«È un tema tanto caro a Papa Francesco. Di fronte alle esperienze difficili anche recenti, come la pandemia di Covid19, l’uomo percepisce la sua debolezza e prova angoscia per il futuro. I nodi dell’esistenza umana – ci ricorda il Santo Padre – devono spingerci a compiere uno «sforzo creativo» e soprattutto a «ripensare alla presenza dell’essere umano nel mondo»; quindi non solo a programmi economici, ma a una nuova prospettiva umanistica. La Chiesa, che è maestra di umanità, da sempre ha sviluppato un’antropologia dell’essere umano nella sua imprescindibile relazione con Dio; in tal modo, l’uomo può scoprire il senso della propria esistenza, divenire costruttore del bene comune e farsi promotore dei valori di fraternità, di solidarietà e di compassione».
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