Lascia il primario che fronteggiò il Covid. «Nella 1ª ondata Bergamo fu lasciata sola»

«PAPA GIOVANNI». Marco Rizzi, direttore delle Malattie infettive, da lunedì 1° luglio è in pensione. Iniziò nel 1987 ai Riuniti. «Erano gli anni dell’Hiv, fu drammatico. La pandemia il momento più duro, non ho ancora rielaborato la tragedia».

Nei cartoni che affiorano timidi sopra gli scaffali, Marco Rizzi sta riponendo i ricordi di una lunga carriera col camice bianco addosso. Sono ricordi concreti e materiali – libri, riviste scientifiche, documenti – e memorie intangibili ma indelebili. Da lunedì 1° luglio il direttore delle Malattie infettive del «Papa Giovanni» va in pensione: «Cosa farò ora? Niente – ride il medico, 68 anni a novembre –. Negli ultimi 49 anni, da quando mi sono iscritto a Medicina fino a oggi, non ho mai avuto così tanto tempo libero…». Perché Rizzi, milanese di nascita ma al lavoro da Bergamo dal 1987 e ormai alzanese per residenza, in questi decenni c’è stato sempre: c’era quando l’Hiv/Aids era l’epidemia carsica e drammatica che mieteva vittime «invisibili» alla società, c’era quando le malattie infettive s’affacciavano verso il futuro, c’è stato – soprattutto – in quella dolorosa pagina di storia che è stato il Covid, qui nell’epicentro occidentale.

Dottore, partiamo dall’inizio: com’è iniziata la sua «avventura» di infettivologo?

«Finita Medicina, in realtà mi sono specializzato in Malattie tropicali, e uno dei miei primi lavori è stato in Ghana. Lì ho incontrato un mondo appassionante, che mi ha spinto a specializzarmi ulteriormente, prima in Microbiologia e infine in Malattie infettive».

Comincia a lavorare a Milano, poi arriva a Bergamo, ai Riuniti. Cosa trova, nel 1987?

«Qui la diffusione dell’Hiv era legata soprattutto all’eroina, all’uso delle siringhe. Fu qualcosa di drammatico: calcolammo che a Bergamo tra la metà degli anni Ottanta e la metà dei Novanta morirono 800 persone. Quando intercettavamo queste persone, davanti a loro avevano qualche mese di vita o al massimo qualche anno. E queste persone vivevano uno stigma forte, non solo nella società ma anche in alcuni ambiti sanitari».

Umanamente, un medico come vive queste situazioni?

«Si doveva inventare tutto. E se la cura era impossibile, in quelle difficoltà abbiamo imparato che si può fare molto partendo dall’organizzazione. Certo è difficile affrontare quelle situazioni dei pazienti, ma è anche il momento in cui un medico è spinto a ragionare sugli aspetti più profondi: forse, proprio quella riflessione è la parte più bella della professione».

Poi Hiv e Aids diventano patologie silenti.

«Dopo la metà degli anni Novanta cambia tutto, l’Hiv diventa una patologia cronica: i progressi ci sono stati».

Arriviamo al 2020. Cosa pensa la prima volta che sente parlare di quel nuovo coronavirus dalla Cina?

«Ogni settimana appaiono notizie su focolai locali di malattie infettive, poi tutto si spegne. Quella volta no, nel giro di qualche settimana si capì che il problema c’era. Ma è andata peggio di quanto avessimo prefigurato».

Qual è stato il momento più duro della pandemia?

«Bergamo nella prima ondata è stata lasciata sola. Mentre avevamo le code di ambulanze fuori dal Pronto soccorso, noi mandavamo mail disperate a ospedali fuori provincia per chiedere la disponibilità ad accogliere i nostri malati. E da questi altri ospedali fuori provincia non abbiamo avuto aiuto, tenevano i reparti vuoti in attesa che l’emergenza arrivasse anche lì. Noi, invece, nelle ondate successive abbiamo dimostrato grande generosità, accogliendo tanti malati da fuori provincia».

Quando iniziò a vedere la luce?

«Ricordo due momenti. Durante il lockdown, quando tornavo a casa dall’ospedale telefonavo a Maria Beatrice Stasi (all’epoca dg del “Papa Giovanni”, ndr) per fare il punto sulla giornata, e in 15 minuti di viaggio contavo 15-20 ambulanze. Una sera finalmente non vidi ambulanze e le dissi: qui sta davvero cambiando qualcosa in meglio. Poi un altro momento di sollievo, più spensierato, fu quando con mio figlio ci mettemmo a tirare di scherma nel corsello dei box: tornavo a fare qualcosa di quasi normale».

Come vede il futuro del suo mestiere?

«In generale, sul futuro del Sistema sanitario nazionale sono moderatamente pessimista. Così come per gli infettivologi: la programmazione dei posti di specialità è sbagliata, siamo passati dall’averne troppo pochi ad averne troppi. Tra qualche anno ci troveremo ad avere più specialisti che posti negli ospedali».

E se arrivasse una nuova pandemia, saremmo pronti?

«Abbiamo più esperienza e più strumenti, c’è più responsabilità. Ma ci sono anche dinamiche generali sfavorevoli: la densità di popolazione, le grandi aggregazioni di massa. Le premesse perché le cose vadano storte, insomma, ci sono sempre».

Ma davvero lascia del tutto la medicina?

«Sì, a oggi non ho programmi. Poi può darsi che impazzisca e riprenda, ma dubito (ride, ndr). Mi dedicherò sicuramente alla scherma con mio figlio (suo figlio Jacopo, 19 anni, è atleta della nazionale e ha vinto recentemente l’oro a squadre ai Mondiali Under 20, ndr) e mi prenderò del tempo per pensare».

È riuscito a rielaborare la tragedia del Covid?

«No, e anche questo è uno dei motivi per cui lascio. Ci sono state cose positive persino in quella tragedia, vero: il fatto che siamo rimasti in piedi nonostante tutto, il sostegno incredibile da parte della comunità. Io vivo a Nese, sono morti vicini di casa e persone che conoscevo, il coinvolgimento è stato forte. Ci vuole tempo per andare oltre l’aneddotica e capire davvero che cosa è successo».

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