
Cronaca / Bergamo Città
Domenica 16 Marzo 2025
«La svolta nel Covid? Il primo guarito uscito dalla Rianimazione»
L’ANNIVERSARIO. Luca Lorini dell’Area critica del «Papa Giovanni» ricorda cinque anni fa a Bergamo, in ospedale. «Accadde il 22 marzo, dopo i camion con le bare. Fu un segnale fortissimo».
Il 20 marzo 2020, un paio di giorni dopo la potentissima fotografia dei camion militari carichi di bare allineati su via Borgo Palazzo, Luca Lorini entra come ogni mattina all'alba al «Papa Giovanni». È il direttore del Dipartimento di Emergenza urgenza e Area critica e fronteggia, insieme ai colleghi e a migliaia di operatori sanitari, la tempesta incessante del virus.
«Per noi sanitari – riflette Luca Lorini -, il 18 marzo non è una data leggera. Anche io vorrei dimenticare, far finta che tutto sia stato un film. Ma non lo posso fare, non lo può fare nessuno»
L'ospedale di Bergamo è diventato «il laboratorio del mondo», il più grande avamposto occidentale che combatte il Covid. Quel giorno, la Terapia intensiva del «Papa Giovanni» occupa il 100° posto letto: è l'ora più buia, perché sembra che la marea continui a salire sempre più, senza fine. C'è una paura vivida, difficile da confessare: il timore che nessuno ce l’avrebbe fatta. Ma poi, qualche giorno dopo, filtra un timido raggio di sole, il primo paziente esce guarito dalla Rianimazione. Comincia, un passo alla volta, un’altra storia: quella del progressivo contropiede alla malattia. «Per noi sanitari – riflette Luca Lorini -, il 18 marzo non è una data leggera. Anche io vorrei dimenticare, far finta che tutto sia stato un film. Ma non lo posso fare, non lo può fare nessuno».
Dottor Lorini, cinque anni dopo come si rielabora quel vissuto?
«Le grandi calamità hanno provocato riflessioni in grado di cambiare le condizioni umane. Ciò che si avvicina di più al Covid è la “Spagnola” del 1918-1919, che ha costretto la società a ripensare al rapporto tra uomo e natura; oppure il terremoto di Lisbona del 1755, che ha mutato la relazione col soprannaturale. Dalla storia impariamo per certo che il nostro mondo si divide in un preCovid e in un postCovid».
Lo spartiacque fu un’esperienza sofferta e totalizzante. Qual è stato, per lei, il momento più duro?
«Lo conservo in maniera chiara: la giornata del 20 marzo 2020. Quel giorno abbiamo occupato il 100° posto letto di Terapia intensiva, e considerando anche i reparti avevamo 550 pazienti Covid: in 25 giorni, dal primo caso, avevamo trasformato l’intero ospedale. Entrando in ospedale sentivo i rumori di 150 caschi C-pap che servivano per tenere viva la gente, dopo Wuhan eravamo diventati la più grande Terapia intensiva del mondo».
Perché fu particolarmente duro, quel giorno?
«Per due motivi. Uno logistico-organizzativo: 25 giorni prima non sapevamo ci fosse la malattia, e dopo eravamo invece diventati il “laboratorio del mondo”. Poi c’è l’aspetto emotivo. Non era ancora guarito alcun paziente e tutti avevamo un sentimento, benché non potessimo davvero trasmetterlo: ma ce la faremo a sopravvivere o moriremo tutti? C’è stato un momento in cui questa domanda, davvero, era molto forte».
Molto forte perché, all’inizio, tutto era sconosciuto.
«Dalla Cina non ci avevano raccontato la verità. Qui, invece, nel lavoro quotidiano ogni giorno scoprivamo qualcosa e subito condividevamo la conoscenza. Abbiamo fatto le autopsie contro normative che dicevano di non farle, avevamo bisogno di capire cosa stessimo curando».
Anche voi medici avevate paura.
«Non sapevamo se potessero sopravvivere i nostri pazienti e non sapevamo se saremmo sopravvissuti noi sanitari. C’è stato un momento nel quale anche noi, la più grande macchina da guerra del Paese, siamo arrivati vicini al tracollo: ancora due settimane a quel ritmo e non ce l’avremmo fatta».
Però ce l’avete fatta, a un certo punto si scorge uno spiraglio di luce. Quando, per lei?
«Esistono segni di svolta nella vita. Per noi dottori di Bergamo è stato tra il 22 e il 23 marzo, quando uscì dalla Terapia intensiva il primo paziente: un uomo di 77 anni, intubato da 22 giorni. Un segnale fortissimo, insieme a due altre cose».
«Avevamo la fila di ambulanze, ogni giorno con un centinaio di pazienti che necessitavano di ricovero, e una quindicina di questi doveva entrare in Terapia intensiva. Tutte le mattine alle 7,30 facevamo una riunione e veniva detto quanti pazienti uscivano dalla Terapia intensiva: all’inizio i posti si liberavano solo perché i pazienti morivano, poi iniziarono a esserci i guariti»
Quali?
«La prima riguarda il Pronto soccorso. Avevamo la fila di ambulanze, ogni giorno con un centinaio di pazienti che necessitavano di ricovero, e una quindicina di questi doveva entrare in Terapia intensiva. Tutte le mattine alle 7,30 facevamo una riunione e veniva detto quanti pazienti uscivano dalla Terapia intensiva: all’inizio i posti si liberavano solo perché i pazienti morivano, poi iniziarono a esserci i guariti. Verso la fine di marzo, lo squilibrio tra richiesta e disponibilità divenne in pareggio: nel frattempo era stato aperto anche il presidio della Fiera, l’offerta di posti letto continuava ad aumentare e la domanda cominciava a regredire».
Come avete fatto a resistere?
«Grazie ad alcuni elementi di forza. Il primo è che la capacità di far fronte a catastrofi e fenomeni inaspettati non si può improvvisare. Quando nel 2001-2002 è iniziata la progettazione del “Papa Giovanni”, s’è pensato a un ospedale con 88 posti letto di Area critica. Presentammo questa proposta nel 2003 partendo da un ragionamento: dovevamo progettare una struttura proiettata al 2050, e l’epidemiologia ci diceva già allora che avremmo dovuto confrontarci con una demografia diversa, con i batteri e la multiresistenza, e anche con le pandemie. Abbiamo avuto la capacità di intuire i problemi del futuro».

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