La storia di un parto ai tempi del Covid
«Io positiva mentre il mio bambino no»

L’attesa per l’emozione più importante della vita dura nove mesi. Quel tempo però oggi si dilata e s’arricchisce di ansie, di paure, anche di tensioni. Affrontare una gravidanza in pandemia, affrontarla scoprendo appena prima del parto di essere positivi al Covid.

Vivere tutto ciò che ne consegue: i tamponi, soprattutto l’attesa per i tamponi, il periodo della quarantena, la distanza dagli affetti.

Sara Ghigo ha 36 anni, è di origini piemontesi e abita in città. La sua esperienza è la fotografia di ciò che accade a tante neomadri, a tante famiglie: il contrasto stridente tra la gioia della nascita e l’apprensione per le conseguenze della positività, pur quando la malattia non manifesta i propri sintomi.

«Il 17 giugno vengo ricoverata all’ospedale Papa Giovanni per il parto, un cesareo – racconta la donna -. Vengo sottoposta come da prassi al tampone, che dà esito positivo: ancora non riesco a capire come abbia potuto prendere il virus, da fine febbraio sono uscita solo per le visite mediche. Ci cambiano così di stanza, bardano me e mio marito per evitare la diffusione del virus. Il giorno seguente vengo contattata da Ats per tracciare i miei contatti stretti: tra questi risulta mio marito, mentre non viene considerato tale mio figlio di cinque anni, che una settimana prima del parto avevo portato dai nonni in Piemonte. Viene prenotato per il 23 un tampone a mio marito, e uno seguente il 29 giugno».

Intanto, nasce il figlio di Sara e di suo marito Matteo Capello: sta bene, e anche il piccolo viene sottoposto al tampone, che dà esito negativo. Il tampone del marito del 23 risulta positivo: «L’ha visto direttamente mio marito dal fascicolo sanitario elettronico, da Ats non ha ricevuto comunicazioni – continua la donna -. Il 1° luglio io sono sottoposta al primo tampone di controllo, che risulta negativo; il 2 luglio, però, il secondo tampone è di nuovo positivo. Lunedì mi hanno prenotato i due ulteriori tamponi di controllo, per il 9 e l’11 luglio».

Oltre la rincorsa di date e la sequenza di tamponi, c’è un sentimento: «Il disorientamento. I cittadini sono caricati di un peso veramente grande. È psicologicamente pesantissimo – sospira la donna -. Abbiamo paura di poter contagiare il piccolo, a casa adottiamo grandissime precauzioni, peraltro non facile perché gli ambienti ovviamente sono condivisi. L’altro figlio invece è ancora dai nonni: non lo vediamo da cinque settimane, è doloroso, però non vogliamo che possa essere contagiato, che entri nel turbinìo dei tamponi, che anche i nonni possano essere magari contagiati. A tutto ciò si aggiunge l’attesa per ricevere informazioni, le telefonate infinite ai centralini, la ricerca di chiarezza. È un peso difficile da sostenere, servirebbe più vicinanza».n 

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