La sfida del nuovo ponte Morandi
È un bergamasco il direttore dei lavori

Stefano Mosconi, cresciuto tra Città Alta e Loreto, a capo del cantiere per la ricostruzione del viadotto Polcevera per conto della società consortile «Per Genova», costituita dai colossi delle grandi opere Fincantieri Infratructure e Salini Impregilo.

«No, non è un cantiere come gli altri». Anche un ingegnere tutto d’un pezzo tradisce l’emozione quando gli si chiede: «Com’è lavorare lì?». Lì, dove la rinascita, testimoniata dal brulicare di operai e mezzi, si fonda su una tragedia, costata 43 morti e 566 sfollati, il 14 agosto 2018.

Tra poco sarà un anno. Com’è, quindi, stare lì, a presidiare che tutto vada per il verso giusto? «Si respira l’emotività delle persone, caricano di responsabilità ma anche di una bella motivazione», risponde. Stefano Mosconi è il direttore del cantiere del nuovo ponte Morandi, per conto della società consortile «Per Genova», costituita dai colossi delle grandi opere Fincantieri Infratructure e Salini Impregilo.

In pratica questo gigante (è alto alto) biondo, dai modi fermi e gentili, deve tenere sotto controllo il cuore della ricostruzione da tutti i punti di vista: dell’ambiente, della sicurezza, della programmazione e della produzione. Un bergamasco doc, Stefano, cresciuto tra Città Alta e Loreto. Sfogliando l’album dei ricordi, non è il classico bambino con la mania dei Lego, la passione per le costruzioni matura pian piano, tra gli studi al liceo «Lussana» e al Politecnico di Milano. La respira in casa, ispirato dai progetti di papà Piero, e gli si appiccica addosso, senza mollarlo più. Si ritrova così, a neanche 43 anni compiuti, a gestire la nuova vita del viadotto Polcevera.

Le immagini delle demolizioni e della «prima pietra» di quella che sarà la «nave» firmata Renzo Piano hanno fatto il giro del mondo. Quel mondo che fin qui Stefano ha praticato, anche e soprattutto per lavoro. Dalla Libia alla Romania, fino all’Austria, dove cinque anni fa si è trasferito per seguire, sempre come direttore di cantiere, il tratto più importante (sul lato austriaco) della galleria di base del Brennero, sempre in forze alla Salini Impregilo, global player delle costruzioni, ora al centro di «Progetto Italia», il costituendo maxi-polo del settore. A Innsbruk ha base la famiglia – la moglie Francesca Puccinelli, (tosto) avvocato bergamasco, e i tre pargoli Pietro, 9 anni, Cecilia, 7 e Matilde, l’ultima nata, un anno fa –, lui è pendolare nel weekend.

«Mi sono reso conto che tutto il mondo sta seguendo la vicenda del ponte Morandi, quando in Austria ho incontrato il preside del mio primogenito ed era aggiornatissimo su tutte le fasi dei lavori – racconta –. Fa effetto pensare che tutto il mondo sta guardando se il ponte viene fatto bene e nei tempi previsti, ma è molto motivante. Più che la pressione mediatica sento l’orgoglio di far parte della squadra che sta costruendo un’opera che rappresenta l’eccellenza italiana nel mondo. Il ponte “Per Genova”, come è stato chiamato provvisoriamente dallo stesso commissario straordinario, sarà un’infrastruttura all’avanguardia, punto di riferimento per opere simili».

Per la precisione i «colleghi» (tra manodopera operaia e ruoli impiegatizi) nelle fasi più intense delle lavorazioni arrivano anche a mille persone, sette giorni su sette, h 24. Non chiedetegli qual è la giornata-tipo, perché non c’é. «Si sa quando si inizia ma non quando si finisce». Anche 16 ore al giorno sull’attenti. Ci vogliono disciplina e lucidità, ma non mancano, temprate anche dalla formazione sportiva (è stato due volte campione italiano di Triathlon, gareggiando con la Nazionale anche a livello internazionale): «In effetti lo sport insegna cos’è il sacrificio, e che per raggiungere certi risultati ci vuole fatica». Una forma mentis bella impostata (e molto orobica, non mancano infatti le battute dei colleghi: «Il cliché del bergamasco me lo porto dietro dai tempi dell’università, ma per fortuna qui arriviamo da tutta Italia, e quindi la presa in giro non è monodirezionale», scherza lui.

«Arrivato a Genova, le prime due settimane avevo i brividi ogni volta che vedevo la parte del ponte rimasta sospesa. Nelle strade aperte al traffico sotto il viadotto ci sono mazzi di fiori e le foto a ricordare le vittime del crollo, le commemorazioni sono frequenti. È toccante, non ci si abitua», ammette. Intorno all’opera però c’è un’attesa che carica: «Ce chi l’ha odiato e chi l’ha amato, il ponte Morandi. La sera del 27 giugno scorso, quella prima del brillamento, c’è chi è venuto a salutarlo, il ponte. Io e mio papà ci siamo trovati ad assistere a questa scena che ci ha colpito molto. Tutti, nel quartiere Certosa, hanno un ricordo legato a questa infrastruttura, era l’orizzonte che vedevano dalle finestre. E ora sono tutti partecipi della ricostruzione, la sentono come un’occasione di rinascita, per far recuperare a Genova il ruolo di grande città portuale e commerciale. Non è retorica dire che è un progetto unico, con una spinta motivazionale in più rispetto ai progetti seguiti fin qui e di cui mi occuperò in futuro», assicura.

Un’opera del valore di oltre 220 milioni di euro, bisogna fare i conti con la tabella di marcia serratissima: «Vista l’urgenza, demolizione e ricostruzione stanno procedendo insieme, due fasi complesse da coordinare, che vanno avanti a ritmi velocissimi. Tempi stretti che comportano un’organizzazione spintissima e una capacità di rispondere senza esitazioni a tutti gli imprevisti che in già in un cantiere normale ci sono, immaginiamoci in questo».

Ma su tutto prevale il «fuoco sacro» del mestiere: «Il bello, lo dico sempre ai giovani ingegneri, è che alla fine hai la concreta percezione di quello che hai fatto, lo vedi davanti agli occhi. Plasmi tanta materia che ti sopravviverà». Quando sarà finita la «missione» di Genova, dove si vede? «Non saprei – risponde – siamo una famiglia un po’ nomade. Ma cercherò un progetto che mi dia stabilità per stare di più con la mia famiglia, che fin qui ha portato tanta pazienza. Se li conto, sono più gli anni passati lontano dai miei figli che quelli trascorsi insieme. È ora di recuperare».

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