Infusione di anticorpi, studio a Bergamo
Dal Papa Giovanni e Negri cura salvavita

A Bergamo, grazie a uno studio dell’ospedale Papa Giovanni XXIII con l’Istituto Mario Negri, si sta sperimentando una nuova terapia salvavita.

Un «bombardamento» di anticorpi contro il Covid-19 in pazienti in condizioni gravissime, che non avevano risposto a nessuna delle cure, con il 40% di probabilità di morire: a Bergamo, grazie a uno studio dell’ospedale Papa Giovanni XXIII con l’Istituto Mario Negri, si sta sperimentando una nuova terapia salvavita.

I risultati sono molto incoraggianti, ma si è ancora all’inizio: i pazienti interessati sono al momento 5, si punta a 10, per un confronto con pazienti con le stesse caratteristiche ma che per diversi motivi non hanno potuto ricevere lo stesso trattamento. Poi lo studio sarà pubblicato. Si tratta dell’estrazione degli anticorpi da pazienti guariti dal Covid-19 per infonderli in malati gravissimi, ed è un passo in avanti rispetto all’infusione del plasma estratto dai guariti dal Covid.

Un qualcosa in più che è nato dalle cure per un’altra malattia, grazie all’intuizione del dottor Piero Luigi Ruggenenti, direttore di Nefrologia e dialisi del Papa Giovanni, e dei suoi collaboratori, con il contributo di Anna Falanga, direttore della Immunoematologia e di Luca Lorini, direttore Dipartimento Emergenza urgenza e Area critica, insieme ai ricercatori del Negri, in particolare Miriam Galbussera, Marina Noris, Luca Perego e Ariela Benigni, segretario scientifico del Negri e coordinatore delle ricerche a Bergamo.

«Tutto è nato da una tecnica sviluppata al Negri per curare la nefropatia membranosa, una malattia dei reni dovuta ad anticorpi che impazziscono e aggrediscono l’organo – spiega Giuseppe Remuzzi, direttore del Negri – . L’obiettivo era in questo caso di non far formare anticorpi dannosi in questi malati. Per questo era stato introdotto un farmaco, il Rituximab, oggi ampiamente diffuso, ma volevamo anche togliere gli anticorpi dannosi che si erano già formati, e quindi, grazie alla collaborazione di Mauro Atti, che lavora in Aferetica, azienda biomedica di Mirandola, un centro con grandi menti italiane, è stata messa a punto una macchina che toglie dal sangue questi anticorpi dannosi. E poi con il Rituximab si impedisce che si riformino. Si è arrivati alla risoluzione della malattia nel 70% dei casi in pochi giorni, senza questa procedura occorreva molto più tempo. Esplosa la pandemia, abbiamo provato ad applicare questa tecnica ai malati di Covid: si va oltre il plasma, perché si toglie ai donatori solo quello che ci serve, cioè gli anticorpi specifici e neutralizzanti contro il Covid e si fornisce ai riceventi solo quelli e non altri che potrebbero essere anche dannosi. È un bel passo avanti: forse in questo momento l’infusione di anticorpi neutralizzanti è la cosa più sicura che abbiamo per i malati gravi».

L’estrazione degli anticorpi dura circa due ore, ed è indolore: una cannula prende il sangue, lo passa attraverso lo strumento che glielo restituisce privato degli anticorpi, bloccati da uno speciale filtro. Dopo l’estrazione, la sacca di anticorpi viene portata al Centro trasfusionale del Papa Giovanni per i test necessari per evidenziare l’eventuale presenza di altri virus, come l’epatite. «La sacca viene congelata a meno 80 gradi – aggiunge Anna Falanga – in attesa che ci sia il paziente con il gruppo sanguigno compatibile con il donatore. Fino a quando non ci sarà un vaccino, questa terapia è da tenere in seria considerazione perché i risultati finora sono davvero promettenti».

«Per la malattia dei reni il macchinario estrae quasi tutti gli anticorpi nocivi che finiscono in una sacca che poi eliminiamo – spiega Piero Luigi Ruggenenti, che coordina il progetto a cui partecipano anche i medici Stefano Rota e Diego Curtò – .Ci siamo resi conto che avremmo potuto applicare la procedura sottoponendo al prelievo di anticorpi pazienti guariti dal Covid-19. Non possiamo ancora dire se sia la soluzione, è una tecnica nuova, diversa dalla plasmaferesi». Quella del plasma, intanto, anche con anticorpi neutralizzanti, è avviata dall’Irccs San Matteo di Pavia, con l’ospedale di Mantova e di Lodi.

«La tecnica del plasma ha radici lontane: lo si è fatto con l’epidemia di Spagnola, con la Sars, l’H1N1, la Mers e con Ebola. È stata usata anche per la poliomelite, il morbillo e la parotite – rimarca Remuzzi – .Questo è il momento di lanciare un appello perché il trattamento con il plasma sia esteso in tutti gli ospedali d’Italia. E se i risultati dimostreranno l’efficacia del nostro studio sugli anticorpi neutralizzanti è importante che anche questo venga messo a disposizione di tutti: dove si fa la dialisi si può fare anche questo. Come per il Centro nazionale trapianti o il registro dei donatori di midollo, in Italia lo si può fare attraverso il Centro nazionale sangue (che è nell’Istituto superiore di Sanità), diretto da Giancarlo Maria Liumbruno, a cui siamo molto grati perché è stato il primo a credere in questa nostra tecnica. In questo momento di lotta alla pandemia, infine, bisogna riflettere sull’importanza della ricerca, che sa dirci sempre qualcosa: pensiamo al nostro studio sull’infusione per gli anticorpi, è stato messo a punto per la nefropatia membranosa e trova applicazione per qualcosa d’altro che nessuno avrebbe mai potuto immaginare».

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