Inchiesta Neet/6. «Siamo in fase
di passaggio e pagano i più deboli»

Tiraboschi, giuslavorista: si è spezzata la linearità fra studio, occupazione e pensione, tutto oggi è mischiato. «Spendiamo tanti soldi pubblici fuori bersaglio, senza rispondere al bisogno di lavoro e non solo di reddito».

I Neet sono i giovani, dai 15 ai 29 anni, nel limbo dell’inattività: né studiano né lavorano. In Italia sono a quota 2,1 milioni (23,4%) e in Lombardia a 217 mila (15,1%). «Ne parliamo almeno da 20 anni – spiega il bergamasco Michele Tiraboschi, giuslavorista all’Università di Modena e coordinatore scientifico di Adapt, l’associazione fondata da Marco Biagi nel Duemila – e quindi la questione è stata individuata, ma qualunque riforma si faccia il problema resta. È una situazione sicuramente molto grave in Italia più che nel resto del mondo occidentale». Un fenomeno che va visto in parallelo con la disoccupazione giovanile che, per quanto scesa dal 40% al 30%, è sempre alta, mentre restano bassi i tassi di occupazione. I giovani, dai 15 ai 24 anni, che in Italia lavorano sono poco di un milione (18,6%), in Lombardia 217 mila (23,2%) e nella Bergamasca la percentuale sale al 27,7%. Gli occupati dai 25-34 anni sono 4,1 milioni in Italia (62,7%), 809 mila in Lombardia (76,5%) e nella Bergamasca rappresentano il 74,2%.

Professor Tiraboschi, come si è giunti a questo vagare senza meta dei ragazzi?

«In un’Italia che fa sempre meno figli, sono pochi quelli che trovano un lavoro e chi resta disoccupato in molti casi abbandona l’idea di cercare un posto: è la condizione degli scoraggiati. Qui si aggiunge un altro elemento tipico del Sud Europa, e dell’Italia: molte di queste persone sono donne, specie del Mezzogiorno».

Pesa il deficit scolastico?

«Direi che non si parlano bene tre fattori. La scuola, perché abbiamo ancora un sistema pensato per il ’900. Il sistema produttivo, molto diffidente nell’inserimento dei giovani: sicuramente c’è una quota di sommerso e in altri casi un tirocinio o poco di più. Le famiglie, infine. Un tempo anche da noi non esisteva l’idea che si stesse a casa, senza far niente. Oggi, invece, questa svolta è tollerata e talvolta promossa dagli stessi genitori: “Questo lavoro per te non è decoroso, stai a casa che intanto ti manteniamo noi”. E invece questi lavori saltuari, poco gradevoli e non coerenti con i tuoi studi, dovrebbero essere accettati, perché comunque ti fanno crescere e i datori di lavoro apprezzano chi s’è dato da fare in attività diverse».

Boom dei lavoretti?

«Sì, insieme al dilagare del lavoro nero. Ai miei studenti, alla facoltà di Economia, chiedo sempre di darmi il loro curriculum e la metà dichiara di aver svolto attività lavorative, ma di averlo fatto senza un contratto o senza un tirocinio, dunque in nero. In questo modo si scaricano sui ragazzi i lavori meno piacevoli che un adulto non vuole più fare».

A che punto siamo con la normativa?

«Ci sono due strumenti. Uno è l’alternanza scuola-lavoro, che è obbligatoria e che però riguarda i ragazzi che già studiano e quindi non chi ha abbandonato o chi ha finito i corsi. È uno strumento che serve a prevenire l’assenza di lavoro o l’uscita prematura dagli itinerari formativi. La normativa, introdotta dal governo Renzi, è stata modificata dal primo esecutivo Conte, che ne ha cambiato anche il nome: l’obiettivo non è più insegnare un mestiere, ma le competenze trasversali, cioè conoscere un po’ il mondo del lavoro. L’altro è Garanzia giovani, programma europeo adottato in Italia dal 2013 e tuttora in vigore».

Però non se ne parla.

«Si tratta di un progetto molto impegnativo perché le istituzioni pubbliche, con finanziamenti anche europei, si impegnano a dare garanzia a un giovane iscritto a questo programma che riceverà una proposta di lavoro o comunque un tirocinio o un’offerta formativa. Garanzia giovani era pensata per gli under 25, ma da noi il problema riguarda una fascia anagrafica dai 27 ai 35 anni, per cui abbiamo ottenuto una deroga e ci è stato consentito di inserire i giovani fino a 29 anni. Abbiamo avuto più di un milione di persone che ha aderito al progetto, che tuttavia funziona poco e male: mancano i Centri per l’impiego e personale specializzato. Alcune Regioni, poi, hanno utilizzato la norma europea per incentivare le imprese a utilizzare questi ragazzi. Risultato, soprattutto al Sud: vengono impiegati come stagionali per sostituire lavoratori a termine e, finito il finanziamento pubblico, il ragazzo è rispedito a casa».

Un risultato deludente.

«I due strumenti che ho citato, l’uno preventivo e l’altro mirato, sono falliti per l’incapacità del nostro Paese di attivare i giovani attraverso politiche del lavoro e di formazione. La risposta legislativa non ha funzionato, in quanto manca proprio una infrastruttura pubblica e privata. E tuttavia questo decifit ci ha aiutato a capire che su tutto dominano gli handicap culturali. Da un lato il giovane non è aiutato a capire come può rientrare attivamente in gioco, dall’altro le aziende sono diffidenti e preferiscono affidarsi al proprio personale esperto. È mutato, pure nella Bergamasca, l’approccio dei giovani al lavoro. S’è persa l’etica di un tempo, visto che il lavoro è percepito come qualcosa che serve solo a prendere soldi».

Ma in questo contesto che ruolo gioca il Reddito di cittadinanza?

«Parlarne non è un tabù ed è un grande interrogativo ovunque, dato che tutti i Paesi si stanno interrogando su questo strumento legato alle tecnologie che probabilmente non distruggono il lavoro, ma lo spostano fuori dalla fabbrica in settori poveri: servizi alla famiglia e alla persona, “badantato”, occupazioni domestiche e parasanitarie. Io mi rifaccio all’etica e alla centralità del lavoro e quindi guadagnare un reddito senza fare niente non ti gratifica sul piano della tua dignità umana e professionale. Tuttavia la questione non va vista in termini manichei: sì o no. Sono misure che si stanno ancora sperimentando: possono servire per contrastare disagio e povertà, mentre in altri casi riguardano destinatari non ancora pronti per tornare a lavorare. È evidente che scontiamo, come per Garanzia giovani, l’assenza di Centri per l’impiego che funzionino, di competenze e professionalità e di una infrastruttura di governo del mercato del lavoro che realizzi lo scambio fra il sussidio e il rientro dei Neet in un qualche impiego. Quello che vediamo, invece, sono tanti soldi pubblici dei pochi che abbiamo, spesi male e spesso fuori bersaglio: non danno le risposte di cui le persone hanno bisogno, il bisogno cioè di lavoro e non soltanto di reddito».

Lei, anche con noi, insiste sugli elementi culturali.

«Sì, e parlerei di dismissione culturale. Il lavoro non è solo avere uno stipendio, ma è relazioni, vita sociale, status e dignità professionali. Dunque, ci sfugge questa dimensione che chiamerei anche antropologica e probabilmente ci scappa di mano la considerazione che sta finendo la vecchia società industriale fordista. Siamo ancora nel pieno di una lunga transizione, perché iniziata negli anni ’70, e ancora non vediamo un nuovo ordine sociale ed economico che sia stabile, che dia prospettive. La quarta rivoluzione industriale ci porta fuori dall’universo della fabbrica, perché il robot riduce l’utilizzo di manodopera, verso contesti dove il lavorare è anche il formarsi e apprendere. Però i nuovi saperi si acquisiscono negli ambienti reali e così dovremmo abbandonare culturalmente i vecchi strumenti, il superato schema del posto stabile e lavorare piuttosto sulle professionalità, competenze, attitudini, talenti. L’orizzonte deve essere quello di ecosistemi territoriali dove le integrazioni fra questi universi, un tempo separate, siano attive. Da anni io e i miei collaboratori diciamo che s’è spezzata la linearità fra studio, lavoro e pensione: tutto oggi è un po’ mischiato e però non c’è un ordine con cui miscelarlo. In questo modo il giovane, rimasto solo, è spiazzato insieme con la sua famiglia».

Il modello può essere quello della Germania?

«L’Italia ha un’eccellente tradizione manifatturiera ed è chiaro che la Germania rimane un modello, ma non lo è solo per l’apprendistato. Mi riferisco alla formula delle relazioni industriali partecipative e non conflittuali come in Italia e alle intelligenti e lungimiranti politiche migratorie sia nei confronti dei rifugiati sia di chi arriva per motivi economici. Da noi c’è ancora la paura che i flussi dei migranti ci portino via il lavoro, mentre in Germania hanno fatto una selezione accurata, integrando figure professionali che non si trovavano più. In Italia abbiamo ancora troppi pochi giovani che occupano quei posti di mezzo tra il lavoro manuale esecutivo e quello ad alta professionalità, che sono poi quelle figure che alle nostre aziende bergamasche farebbero molto comodo e che tuttavia le nostre scuole sfornano in maniera insufficiente. Va rilanciato un concetto essenziale: c’è proprio una rivoluzione in corso, siamo ancora nel pieno di una fase di passaggio dove a pagare sono i più deboli. I giovani e, come ho detto, soprattutto le donne. Il rischio è che questa bomba sociale esploda, mentre osserviamo che le famiglie degli immigrati portano i loro figli lungo quei percorsi scolastici meno ambiziosi ma che hanno maggiori prospettive occupazionali concrete. E proprio in questo nuovo mondo di casa nostra riscontriamo quell’etica fortemente radicata nell’idea di lavoro, quella solida traccia storica che invece stiamo perdendo per strada anche nella Bergamasca».

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