Cronaca / Bergamo Città
Sabato 06 Luglio 2024
Il Vescovo sul pellegrinaggio: «Portiamo a casa un sogno di pace: l’Europa»
L’INTERVISTA. Il Vescovo Beschi a fine pellegrinaggio: «Al di là dei riconoscimenti formali, credo che il riferimento al fermento evangelico nella storia europea sia necessario». Il senso del viaggio, l’ascolto, le ragioni della speranza.
Il senso profondo del pellegrinaggio diocesano appena concluso – il senso di ogni pellegrinaggio – il Vescovo Francesco Beschi lo ha riassunto in una breve frase pronunciata sul pullman ormai a una manciata di chilometri da Bergamo: «Adesso torniamo sapendo che lì dove viviamo ogni giorno c’è il tesoro della nostra vita. Però, per poterlo scoprire, bisogna fare un viaggio della fede». Per i 127 pellegrini partiti da Bergamo sono stati otto giorni di preghiera e cammino, di ascolto, contemplazione e riflessione tra Austria, Ungheria e Slovenia per riscoprire le radici profonde della cristianità e la storia della fede attraverso luoghi e figure emblematiche.
Eccellenza, si sono chiusi gli otto giorni di pellegrinaggio diocesano. Qual è il bilancio?
«Quello che si è concluso è un viaggio spirituale speciale che ha attraversato diverse nazioni, storie e popoli diversi, pur confinanti gli uni con gli altri. Abbiamo aperto con una visita particolare a un santuario che unisce italiani, austriaci e slavi, il Monte Lussari, con una devozione a Maria lì particolarmente venerata. E poi l’Austria, sia la sua storia antica sia confrontandola con quello che i nostri occhi hanno visto, ovvero l’Austria nella sua condizione attuale. E finalmente l’approdo in Ungheria, che rappresentava il Paese nuovo per molti di noi che non lo conoscevano. Siamo andati a scoprire le rappresentazioni artistiche, culturali e storiche di questo Paese, per conoscerne la fisionomia e anche l’anima. Per poi concludere in Slovenia, nel santuario nazionale di Brezje, ancora dedicato a Maria. Un percorso a tappe, segnate da una ricerca spirituale: il pellegrinaggio è caratterizzato appunto da momenti che arricchiscono, provocano, nutrono la fede. E abbiamo voluto fare questo itinerario alla ricerca delle tracce del cristianesimo dentro la storia di questi Paesi. Mi sembra che queste tracce siano state riconosciute da tutti e che tutti abbiano raccolto ciò che queste tracce del passato dicono a noi che viviamo da cristiani nel presente».
Durante questo viaggio spirituale, ha accompagnato ogni celebrazione eucaristica con un verbo particolare: fare, unire, liberare, creare, amare, soffrire, credere, sperare. Ce n’è uno che più racchiude la fede cristiana?
«Sicuramente ho voluto che questi verbi, che non dicono soltanto un fare, un agire, ma anche un modo di essere, confluissero nell’ultimo, “sperare”. Non perché sia il più importante, ma perché è oggi particolarmente necessario. E lo vedevo proprio come un ponte verso l’esperienza del Giubileo del 2025. In un mondo lacerato c’è bisogno di riconciliazione e perché la riconciliazione possa avvenire c’è bisogno di conversione. Ma tutto questo deve avere un animo, un motivo, una sorgente, una ragione: e la ragione io credo ci venga dalla speranza. Proprio la speranza che viene da Dio. Le nostre speranze sono troppo esposte alla delusione, la speranza che viene dalla fede in Dio è, invece, una speranza che nessuno può sconfiggere, nemmeno il male più grande e nemmeno la morte. Ecco perché questa trafila di verbi, che attingevano alla Parola di Dio che di volta in volta annunciavamo nelle nostre celebrazioni, mi sembra possa rappresentare un percorso del pellegrinaggio verso un nutrimento delle ragioni della speranza che per un cristiano, appunto, appartengono all’esperienza della fede».
Il primo giorno ha definito questo pellegrinaggio «speciale», attraversato da figure di santi, martiri e beati. Che cosa si porta a Bergamo?
«Innanzitutto, la fede dei pellegrini. Abbiamo vissuto l’esperienza della Chiesa pellegrinante, a me resta questa consolazione: che si può essere una buona Chiesa, una Chiesa in viaggio, in cammino. Certamente, poi, la consapevolezza che è in gioco una grande questione, che oggi assume un nome non semplicemente politico, ma il nome di un grande sogno di pace e di una particolare missione nel mondo. E questo nome è Europa. Noi riteniamo che l’Europa attinga profondamente alle radici cristiane. Al di là di riconoscimenti formali, ufficiali, istituzionali, ritengo che questo riferimento al fermento evangelico della storia europea sia assolutamente necessario. Questo pellegrinaggio è stato speciale perché ci ha portato verso l’oriente dell’Europa, per farci comprendere come al fondamento anche della vita e della storia di questi Paesi ci sia l’esperienza cristiana. E che quindi l’Europa nella sua interezza debba concorrere anche a partire da queste radici a realizzare quel sogno che non può essere solo politico, non può essere solo economico, non può essere solo militare e nemmeno solo di natura produttiva o commerciale: l’Europa. E ritorna per me veramente la grande intuizione di San Giovanni Paolo II, cioè che l’Europa vive nella misura in cui respira con i due polmoni: il polmone dell’Europa occidentale e dell’Europa orientale. Due polmoni che partono dal Portogallo e arrivano fino agli Urali».
Spesso, in questo pellegrinaggio, le è capitato di «girare» nei tre pullman e incontrare tutti i pellegrini. Cosa le rimane di questa condivisione?
«Per me è una grande occasione, perché la vita del Vescovo mette a contatto con tante persone, ma questi contatti a volte sono brevi, profondi ma circoscritti. Condividere per otto giorni la vita di un gruppo di persone per me è una grandissima occasione e un grandissimo regalo. E io cerco di mettermi insieme e di condividere, soprattutto di ascoltare. Ascoltare vuol dire far propria la vita delle persone, assumerla nelle speranze e anche nelle sofferenze, nelle domande e anche in quelle che sono le convinzioni. Ogni volta che vivo questa esperienza mi arricchisco di questa vita, ponendomi veramente in ascolto. Oggi questa deve diventare una scelta diffusa, cioè credo che qualche passo in direzione di una società migliore e della pace nasca, in una condizione di grande pluralismo, di grande diversità delle esperienze e delle idee, da un sincero ascolto reciproco».
Perché mettersi in pellegrinaggio oggi?
«Il pellegrinaggio è antico come gli uomini ed è universale come il mondo: tutte le religioni lo prevedono e, da quando esiste, l’uomo si mette in viaggio per andare verso la montagna sacra o il luogo inaccessibile dove abita Dio. Il pellegrinaggio appartiene alla storia dell’uomo, è parte della nostra natura umana. Oggi è proprio un viaggio dello spirito e credo che sia molto vicino alla sensibilità dell’uomo contemporaneo: un uomo in viaggio. Mi sembra quindi che dentro l’esperienza del viaggio, che assume tante caratteristiche diverse, ci sia la possibilità di proporre anche una forma che prende i contatti di un pellegrinaggio. La figura del pellegrino è una bella figura. Da sempre, o meglio se vogliamo in questi ultimi decenni, è emersa questa visione: cioè la meta è il viaggio. Non esiste una meta, ma l’uomo contemporaneo vede nel viaggio la meta. Ecco, io lo dico proprio a partire ormai dalla mia età che comincia a essere avanzata: ritengo che, se è vero che il viaggio contiene dentro di sé la meta, è importante anche individuare una meta per il proprio viaggio».
Una tappa che l’ha colpita in modo particolare?
«Certamente il desiderio di approdare in Ungheria, dove non ero mai stato, connotava un po’ questo viaggio. E certamente la celebrazione all’abbazia di Pannonhalma – non tanto e solo per la bellezza dell’abbazia, ma per il suo significato storico e di fede – è stato uno dei momenti più intensi di questo cammino. Dal punto di vista personale il mio desiderio era di ritornare sul Monte Lussari e venerare la Madonna che durante la mia giovinezza ha rappresentato tanto anche per la mia famiglia. Ma desideravo non solo di tornarci io, ma di poterci portare anche alcune persone. Quindi la soddisfazione, la gioia, il coinvolgimento di quella tappa è stato particolare».
In tutte le chiese, abbazie e Paesi in cui sono arrivati i 127 pellegrini l’accoglienza è stata sempre calorosa. Come se la comune fede in Cristo affratellasse persone di provenienza diversa. È anche questo il senso del pellegrinaggio?
«Questo è proprio un aspetto che merita di essere sottolineato: un pellegrinaggio come questo, che tocca diverse nazioni, diversi Paesi e storie, culture e manifestazioni artistiche, ci dice però di un fatto che dovremmo ricordare maggiormente. Cioè che la Chiesa è universale. A volte la guardiamo dal buco della serratura: un viaggio come questo spalanca invece l’orizzonte sulla consapevolezza che la Chiesa, con i suoi limiti e i suoi peccati, ma anche con i suoi doni e la sua grazia, abbraccia il mondo intero».
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