Cronaca / Bergamo Città
Domenica 24 Febbraio 2019
Il maestro disegna le parole nell’aria
E tutta la classe parla la lingua dei segni
Il giovane insegnante di Bergamo fa comunicare i ragazzi udenti con i compagni sordi.
«Io disegno le parole, nell’aria. È come se le creassi con le dita, le trasformassi in realtà. I bambini le guardano, e non le ascoltano più. O almeno credono di non ascoltarle, perché loro all’udito sono abituati. E allora guardano, catturati nell’attenzione di un gesto che memorizzano». Sono spugne i bambini, sono tesori sempre mai abbastanza esplorati, e con gli occhi scoprono quanto Luca Capocchia gli sta raccontando a scuola, in una lezione di scienze, di italiano, anche di educazione fisica. Luca parla loro con la Lingua dei segni italiana, in gergo Lis, e anche quando non sta spiegando nulla, quando lo incontri al bar per fare due chiacchiere, lui ti parla attraverso la voce, ma soprattutto con le mani, sempre in movimento, e i suoi occhi, che non mollano mai l’interlocutore.
Ventinove anni, di Bergamo, mamma Antonia e papà Ivano sono entrambi sordi, genitori attenti a comunicare da subito con lui e suo fratello sia con la lingua parlata sia con quella dei segni: «Sono un “Coda”, acronimo di “Children of deaf adults”, figlio udente con genitori sordi - spiega -. Sono cresciuto bilingue e ho capito il valore aggiunto della Lis, ponte comunicativo nella quotidianità». Tanto che Luca, quei segni imparati, pur usando sempre la parola «verbalizzata» con la voce, li rende un mestiere: «Già a 13 anni capisco che sono l’essenza del mio essere comunicatore. Con i sordi, ma anche con chi ci sente benissimo». E Luca lo dice subito, davanti a quel caffè: «Per favore, smettiamola di dire non-udenti - esordisce -. Queste negazioni nei termini sono i veri muri della comunicazione». Si dice sordi e Luca lo capisce meglio a 18 anni: «Ho questo valore aggiunto, la Lingua dei segni italiana, e mi chiedo come valorizzarla. Mi affidano Edo: aveva 5 anni, i suoi genitori sono udenti. Gli ho insegnato la Lis e ho capito che quello era il mio progetto di vita».
Luca frequenta i corsi di Lis dell’Ente nazionale dei sordi di Brescia e Milano e partecipa anche al corso per assistente alla comunicazione a Bergamo. «Ora sto terminando anche quello di interprete della lingua dei segni e nel frattempo lavoro come tecnico dei servizi sociali». Cinque anni fa inizia così a lavorare nelle scuole, contattato quando una famiglia di bambino sordo fa richiesta alla Commissione Ats per avere in classe un assistente alla comunicazione. «Diventi così il ponte tra il bambino e la classe, le insegnanti, il mondo scolastico». Ma soprattutto: «Aiuti i bambini a comunicare con il bambino sordo, apri un squarcio nel silenzio, nei timori, anche nella paura spesso di sbagliare».
Perchè la sordità non è per forza diversità, se c’è una lingua che fa comunicare. La sordità diventa scintilla che innesca la valorizzazione dell’altro, delle relazioni, dell’attenzione: «A 25 anni sono entrato nella prima classe e ora non lascerò più questo progetto - sorride -. In Italia un bambino su mille nasce sordo e se nasce da una famiglia udente spesso le fatiche sono maggiori, perchè i genitori puntano subito alla lingua parlata, a quello che è la normalità codificata. Ci sono quindi le aspettative della famiglia e le fatiche del bambino che deve imparare una lingua che gli permetta di dare un senso alle sue parole. Io entro in classe per tradurre quel senso con il resto del mondo, perchè i bambini udenti non hanno gli strumenti per interagire con l’altro, che per loro è “diverso”. E spesso hanno timore di non riuscire a comunicare anche se vorrebbero, perchè non sanno da dove partire. Allora si isolano dal bambino sordo e, di conseguenza, lo isolano».
Una visione su cui riflettere e da cui parte Luca dentro una classe, come una prima media di Bergamo, all’Istituto Donadoni di via Tasso. «Sono lì per Maria, bambina sorda con disabilità cognitiva. Sono lì per lei e per tutti i suoi compagni». E da dove si parte in una classe di 24 ragazzini che con la lingua dei segni non hanno mai avuto a che fare? «Da delle domande di relazione: come attirare l’attenzione di Maria? Come chiamarla per relazionarsi con lei? - spiega -. Iniziamo da un confronto frontale, ci si avvicina, si cerca il contatto, si usa la vibrazione, battendo le mani per esempio sul banco, accendendo e spegnendo la luce in classe». Luca fa degli esempi e continua a raccontare: «Si parte dalla famiglia, si valutano le competenze e le specificità, si lavora con i docenti e sul gruppo classe».
Una vera e propria lezione di lingua straniera, che unisce i ragazzi, crea rete, pone nuove attenzioni e punti di vista. Come nella scuola primaria di Villongo. Nella seconda A c’è Amelia, 8 anni, bambina sorda con genitori sordi: «La seguo dalla materna: grazie alle sue competenze e al lavoro fatto da tutto il gruppo classe e dai docenti, sia Amelia che i suoi compagni ora sono bilingue». E c’è la meraviglia negli occhi di Luca, di quella ragazzina che sorride e ti parla con la Lis e sei tu il diverso che non sai parlare la sua lingua, bellissima, poetica, che narra storie nell’aria, che disegna parole che diventano figure animate da un gesto armonico. «A Villongo tutta la classe segna - spiega Luca -, con un’attenzione alla comunicazione con la Lis che è stata naturale, spontanea. Il fatto è che tutti voglio parlare: che sia un linguaggio scritto, che si parli con la voce oppure con i segni. L’obiettivo è comunicare».
Alla scuola Donadoni, il progetto con Maria è partito nell’anno scolastico in corso: «Abbiamo iniziato dalle lettere dell’alfabeto, dalla forma che prende la mano quando si crea il segno: i ragazzi ascoltano con gli occhi. Il gesto li catalizza e anche chi ha maggiori difficoltà di attenzione ha una percezione della lezione più attiva» continua il 29enne. Perchè c’è una didattica fonologica («Insegnare con la voce, l’alunno ascolta») e c’è una didattica che passa attraverso i segni. «Che è fatta di pazienza e di un ascolto attivo».
I segni diventano quindi una risorsa, proprio come il bambino sordo che in classe ha permesso la presenza dell’assistente alla comunicazione. «Una richiesta desiderata fortemente, voluta a gran voce» dice la mamma di Maria. «Perchè la Lis anima le parole e favorisce una più chiara e ampia comprensione a tutti: aiuta ad interpretare ciò che si legge e ascolta» commentano i docenti di Amelia. E i bambini? «Tornano a casa e trasmettono i nuovi segni alla famiglia, raccontano la nuova avventura». E raccontano anche la storia di Luca, delle sue mani grandi, «strumenti del mestiere»: «I ragazzi fanno domande, continuamente, e chiedono di imparare parole sempre nuove» dice lui. La domanda più frequente? «Come si dice giocare, ma anche come si trasformano le emozioni in segni: la tristezza, la felicità, l’amore». Poi lo spirito ribelle : «Me l’ha detto una volta un ragazzino: con la Lis posso parlare anche facendo silenzio». Meglio di così in una scuola che spesso è regole e numeri. «Così si possono stravolgere questi paradigmi, si impara a comunicare con gli occhi». Intensi: «La vita si arricchisce di esperienza, che è fatta di diversità e accoglienza - continua Luca -. Il nostro sguardo, le nostre mani, sono gli interruttori che accendono le cose, le emozioni, le relazioni».
E un po’ ha ragione lui: non ci si guarda più negli occhi, troppo presi da altro, da altri schermi, da vite frenetiche. Anche da bambini. Luca si ferma, nel silenzio di un’aula: riparte dallo sguardo, fissa i ragazzi con quegli occhi nocciola e mostra la lettera A: «Fatta a pugno, portando il pugno alla guancia, battendola due volte, diventa mamma. Il pugno ricorda la testa di una madre, l’avambraccio il suo corpo». Braccio che accoglie, così come questa lingua che a scuola è filo conduttore di processi di integrazione. Di aprirsi all’altro, perchè l’incontro è questo, contagioso attimo di vita: anche così quelle spugne di bambini ne scopriranno tutta la bellezza. «E magari vorranno continuare a coltivare questa nuova lingua, per nuove relazioni, un diverso punto di vista con cui interpretare la vita». Poi Luca sorride: «Mi chiedono sempre anche che lavoro faccio: i ragazzi non lo capiscono subito». Lui la risposta ce l’ha pronta. E la dice con i segni: «Io faccio vivere le parole».
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