«Il lockdown, i funerali
e la scuola: scelte difficili
ma evitarono la catastrofe»

L’intervista . A 3 anni dallo scoppio della pandemia il prof. Locatelli riflette su cosa è stata la pandemia di Covid in Italia. «I camion mi hanno lacerato».

Memoria. Anche nel dramma più aspro può scorgersi un insegnamento: è quello dell’esperienza, costruita giorno dopo giorno da tre anni a questa parte, impastando la scienza con la ragione. Il 21 febbraio del 2020, un venerdì, da Codogno affiorava l’ufficialità dei primi positivi italiani a quel «nuovo coronavirus»; di lì a poco la macchia del contagio si sarebbe allargata con inesorabile violenza, mareggiando sulla Bergamasca un’inedita ondata di dolore e lutto. «Questo Paese deve avere memoria del suo passato», sottolinea Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di Sanità, bergamasco in prima linea nella gestione della pandemia, già coordinatore del Comitato tecnico scientifico per l’emergenza-Covid.

Tre anni dopo, il presente è una storia ben diversa. La pandemia sfuma verso l’endemia. «La situazione è oggi certamente favorevole – premette Locatelli -. Tutti gli indicatori sul nostro Paese, dall’incidenza ai ricoverati, segnano una tendenza largamente positiva. Un dato interessante è che la variante Omicron ha una prevalenza del 99,9%, con la variante BA.5 scesa al 66%. Nell’ultima settimana la percentuale di reinfezioni si mantiene alta, sfiora il 30%».

Professore, cosa ci dicono questi ultimi dati?

«Sottolineano come le varianti Omicron abbiano una capacità di reinfettare significativamente alta, ma fortunatamente sia grazie alle vaccinazioni sia grazie all’immunità ibrida c’è una protezione significativa rispetto al rischio di sviluppare malattia grave. Uno studio appena pubblicato su The Lancet documenta come la protezione da immunità ibrida duri dieci mesi: questo potrà anche influenzare i ragionamenti relativi a future strategie vaccinali. Non dimenticandoci però che per i fragili il bisogno di dare una protezione con la dose addizionale può essere più corto nelle tempistiche. I decessi, purtroppo, ci sono ancora».

Come reagì quando a inizio 2020 giunse la notizia di quel «nuovo coronavirus» dalla Cina?

«Era sorta la sensazione che ci potessimo trovare di fronte a qualcosa di potenzialmente molto pericoloso, con la speranza e l’auspicio che potesse rimanere confinato come con la Sars nel 2003. Con la diagnosi dei primi due casi tra i turisti cinesi a Roma e poi con le ufficialità del 21 febbraio, quella speranza di contenimento è venuta meno».

«Uno studio appena pubblicato su The Lancet documenta come la protezione da immunità ibrida duri dieci mesi: questo potrà anche influenzare i ragionamenti relativi a future strategie vaccinali. Non dimenticandoci però che per i fragili il bisogno di dare una protezione con la dose addizionale può essere più corto nelle tempistiche. I decessi, purtroppo, ci sono ancora»

Bergamo è stata l’epicentro della prima ondata.

«Ho vissuto quella fase con angoscia, il mio legame con Bergamo è viscerale. La cartina di tornasole di quanto la situazione stesse diventando drammatica era data dalle pagine dei necrologi de L’Eco, clamorosamente espanse. Questa osservazione e le immagini dei camion militari mi hanno lacerato l’anima e artigliato la coscienza, per quello che stava vivendo la mia terra».

Perché il virus colpì con quel vigore proprio la Bergamasca?

«Difficile trovare una sola risposta: probabilmente si deve a una serie di concause. Sicuramente c’è una componente legata all’attività lavorativa economico-sociale e al pendolarismo. La Bergamasca è poi terra di importanti relazioni commerciali con Paesi stranieri. Si aggiunga la densità di popolazione e la stagione che porta a poco ricambio d’aria nei locali chiusi. Atalanta-Valencia? Dire che quella partita abbia fatto da detonatore e che non andasse giocata vuol dire negare la realtà. Che possa aver favorito una diffusione dei contagi, pochi dubbi: ma per i viaggi in pullman del tifo organizzato, non per la partita in sé. Quando si è giocata (il 19 febbraio, ndr), va ricordato, non erano ancora stati ufficializzati i primi casi autoctoni».

Quali sono state le scelte più difficili, nell’affrontare l’emergenza?

«Tre in particolare. La chiusura iniziale del Paese è stata una scelta impegnativa, perché non sfuggivano di certo le implicazioni di un lockdown generalizzato con impatto economico e anche sociale. Sono fermamente convinto che la scelta del lockdown abbia evitato un’immane catastrofe nel Paese: non fosse stata presa, il Centro-sud sarebbe stato investito dallo stesso dramma del Nord. Il secondo elemento è la proibizione della partecipazione ai funerali: fu molto doloroso, perché alla perdita dei cari si sommava il dolore per non poter dar loro un ultimo saluto. Infine la scuola, il cui valore non è solo nell’istruzione ma anche nell’aspetto sociale. Quando nel marzo 2021 ho assunto la responsabilità di coordinamento del Cts, un mese dopo il premier Draghi e il ministro Speranza decisero di investire sulle prime aperture proprio per la scuola: questo rincuorò molto tutti noi che crediamo nell’importanza determinante della scuola».

«Sono fermamente convinto che la scelta del lockdown abbia evitato un’immane catastrofe nel Paese: non fosse stata presa, il Centro-sud sarebbe stato investito dallo stesso dramma del Nord»

Il 27 dicembre 2020 iniziò la campagna vaccinale. Cosa ha rappresentato?

«La luce in una notte oscura e tragica. È stata la più importante, imponente ed enorme campagna vaccinale mai realizzata. Va riconosciuto merito alle istituzioni sanitarie, ai volontari, a tutti coloro che hanno dato un contribuito. Rivendico l’importanza di aver dato priorità ai più fragili per l’accesso ai vaccini».

Le prime tre dosi hanno avuto un’adesione altissima. Dalla quarta in poi, i numeri sono calati.

«Lo sforzo importante è stato proprio quello di riuscire a garantire percentuali così alte di prime, seconde e terze dosi. Di fatto c’è stata una progressiva acquisizione di informazioni sui vaccini: all’inizio si auspicava che potessero dare immunità anche sterilizzante (protettiva anche rispetto alle infezioni, ndr), poi ci si è accorti che il risultato più importante era la protezione dalla malattia».

Stiamo andando verso l’endemia?

«Sì. Dobbiamo completamente e fortunatamente cambiare la prospettiva di visione di quella che è la pericolosità di Sars-CoV-2 e i rischi che ne possono derivare. Ci saranno ancora delle oscillazioni nei numeri in funzione della stagionalità, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che la tragedia vissuta sia lontana rispetto alla situazione attuale».

Che cosa abbiamo imparato dalla pandemia?

«Una lezione di come investire nella preparedness, cioè sulla preparazione: l’essere preparati è ancora più importante che investire sulla risposta. La gestione di future pandemie deve essere basata su una collaborazione internazionale guidata da trasparenza, cooperazione e solidarietà. Sul piano interno, un insegnamento è garantire scelte omogenee sul territorio nazionale: che non vuol dire togliere alle Regioni le loro prerogative e capacità gestionali, ma garantire l’omogeneità di un Paese unito».

«Ci saranno ancora delle oscillazioni nei numeri in funzione della stagionalità, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che la tragedia vissuta sia lontana rispetto alla situazione attuale»

Cosa serve per evitarne altre?

«Di fatto la pandemia ha sottolineato l’interdipendenza tra popolazioni e specie viventi. Queste vulnerabilità necessitano di risposte coordinate e strategie per ridurre il rischio di zoonosi, improntando un sistema di individuazione tempestiva dei rischi per la salute globale».

Ieri era la giornata dedicata al personale sanitario. Tre anni fa medici e infermieri erano chiamati «eroi», oggi ci sono aggressioni continue.

«È intollerabile che il personale sanitario sia oggetto di aggressioni o di minacce. Tutti debbono straordinaria gratitudine al personale sanitario, che si è sacrificato, ha messo a rischio la propria vita e qualche volta l’ha anche persa per aiutare gli altri. Agli operatori, come presidente del Consiglio superiore di sanità, va il mio più immenso grazie. Questo Paese deve avere memoria del suo passato».

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