Il lavoro al femminile tra idealismo, pragmatismo e numeri dell’occupazione

In molti atenei statunitensi, come pure nel dibattito pubblico di alcuni Paesi occidentali, su un numero crescente di temi in discussione – tra cui la parità di genere – l’«identity politics» (o politica dell’identità) ormai spadroneggia. Così il confronto democratico rischia spesso di essere sopraffatto da forme di nuovo tribalismo, con diritti e libertà dell’individuo costretti a cedere il passo di fronte ad assolutismi di genere, di etnia o di quale altro gruppo totalizzante che sia. In un simile contesto globale, merita di non passare inosservato un tentativo, che peraltro sta prendendo corpo in Italia, di perseguire la parità di genere battendosi allo stesso tempo con idealismo e pragmatismo.

«Ogni giorno, milioni di ragazze si trovano a dover imparare, a proprie spese, che non possono realizzare i propri sogni – ha detto di recente il Presidente del Consiglio, Mario Draghi –. Devono subire discriminazioni, a volte anche violente. Devono accettare anziché scegliere, devono obbedire anziché inventare. Solo perché sono donne. Questa situazione non solo risulta immorale ed ingiusta, ma rappresenta anche un atteggiamento miope».

Per alcuni ideologi suonerà come una stonatura, ma è un dato di fatto che in Italia mettere fine a ogni discriminazione delle donne è questione morale e allo stesso tempo di interesse nazionale. Basti un esempio: nel Paese più anziano e con meno figli pro capite d’Europa, con una forza lavoro che per questi motivi già sta subendo un calo numerico, fino a quando ci potremo permettere di avere un tasso di occupazione femminile pari al 50,1% nella fascia 15-64 anni d’età, a fronte del 68% maschile? Ragionamenti simili, stavolta non a livello governativo, sono stati al centro dei tre giorni di lavori di Women20 che si sono conclusi ieri a Roma, un forum promosso dalla società civile nel tentativo di influenzare le decisioni delle potenze mondiali riunite nel G20.

D’altronde è perlomeno dal 1995, cioè dalla Conferenza mondiale sulle donne di Pechino, che nei consessi internazionali si assumono impegni roboanti sul cosiddetto «empowerment femminile». Negare che siano stati compiuti passi in avanti in materia sarebbe scorretto, tuttavia nel mondo – come ricordato di recente dalle economiste Alessandra Casarico e Irene Solmone sul sito Lavoce.info – «il divario nella partecipazione al mercato del lavoro tra uomini e donne è rimasto stabile negli ultimi vent’anni, ed è pari a 31 punti percentuali; le donne sono pagate il 16% in meno degli uomini in media nel mondo, e solo un manager su quattro è una donna; il 31 per cento delle donne tra i 15 e i 24 anni non studia, non lavora e non partecipa a programmi di formazione (17% in più degli uomini); il 18 per cento di quelle tra i 15 e i 49 anni subisce violenze fisiche o sessuali dal proprio partner».

Che fare, dunque, per non rassegnarsi a un altro quarto di secolo di pompose dichiarazioni d’intenti? Ricordare – come fa Draghi – che le sorti dell’emancipazione femminile, della ripresa economica e dell’interesse nazionale coincidono è un primo passo. Per compierlo con ancora maggiore convinzione tornano utili alcuni dei suggerimenti del forum Women20, trasmessi ieri formalmente a Luigi Mattiolo (ambasciatore e sherpa italiano per il G20) da Linda Laura Sabbadini (studiosa di statistica e presidente di turno di W20) e da Martina Rogato (sherpa di W20): i Paesi del G20 si impegnino a fornire dati sempre più disaggregati rispetto al genere e facilmente consultabili, e ad elaborare analisi di impatto a tutto tondo delle loro politiche pubbliche. Solo così la condizione femminile potrà diventare oggetto di verifica e dibattito puntuale, invece che calamita di vaniloqui o ideologie.

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