Cronaca / Bergamo Città
Lunedì 15 Febbraio 2021
«I miei 34 anni all’ex Casa degli angeli»
Guido Molinero, l’ultimo il più duro
Guido Molinero va in pensione e lascia l’Unità di riabilitazione specialistica dove era entrato nel 1987 e che ha diretto per quattordici anni.
«Lascio dopo l’anno più difficile. Col tempo, poi, dover spiegare a un ragazzo di 20-30 anni che resterà per tutta la vita su una sedia a rotelle, mi pesava sempre di più. Guardandoli negli occhi, quei giovani, rivedevo forse i miei figli, che oggi hanno la loro età. E mi immedesimavo».
Lunedì mattina Guido Molinero sarà regolarmente in corsia, a Mozzo, tra i pazienti dell’Unità di riabilitazione specialistica dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII. Ma il suo giro, oggi, avrà un sapore del tutto particolare: lui che questo centro ha contribuito a farlo crescere, fino a diventare uno dei fiori all’occhiello dell’ospedale cittadino, e che dirige ormai da 14 anni, da domattina sarà in pensione.
«Ho regalato tutte le mie ferie per essere qui fino all’ultimo giorno», dice, non senza un pizzico di emozione. All’ex Casa degli angeli Guido Molinero, 66 anni, è entrato 34 anni fa, nel 1987. Il centro aveva riaperto i battenti da appena nove anni. Da «semplice» fisiatra all’Unità spinale, che ha raggiunto nel 2002, fino alla direzione dell’intero reparto, ufficializzata nel 2007, ma di fatto operativa già da un paio d’anni. Ha vissuto una vita intera, Guido Molinero, vedendo entrare e uscire dal suo reparto i malati più gravi, persone che hanno subito traumi importanti, spesso inguaribili, in seguito a incidenti stradali o sul lavoro, oppure a causa di malattie genetiche o neurologiche. Eppure lo spartiacque, quello che forse sarà destinato a cambiare per sempre mentalità e modo di lavorare, anche all’interno di un ospedale, è l’anno appena trascorso, quello del Covid.
Al centro di riabilitazione di Mozzo, il Coronavirus ha prima tolto quel sorriso che qui i pazienti riuscivano in qualche modo a riacquistare grazie all’empatia e alla professionalità dell’équipe medica e dei volontari - e che hanno fatto di questa struttura una delle più particolari dell’intero panorama sociosanitario provinciale - poi è entrato davvero, forse nella maniera più subdola, attraverso tante persone «guarite» dall’infezione, ma con le straordinarie conseguenze (nella peggiore delle accezioni che questo termine suggerisce) che la malattia ha lasciato loro andandosene. «Nell’ultimo anno - racconta Molinero - abbiamo visto arrivare circa 40 pazienti con danni neurologici, scheletrici, respiratori e cardiologici causati dal Covid. Si tratta di persone con quadri clinici anche molto impegnativi, che hanno avuto bisogno di ricoveri lunghi, fino addirittura a 7-8 mesi. Uno di questi è arrivato prima dell’estate e l’abbiamo dimesso il giorno dell’Epifania.
Sono tutti pazienti che, durante il Covid, sono stati curati in terapia intensiva, rischiando la vita, e che hanno sviluppato danni importanti». C’è chi ha subito una paralisi, chi l’amputazione di un arto, chi ancora ha avuto seri problemi polmonari o neurologici. È l’altra faccia di un virus che quando colpisce, sa farlo in maniera molto traumatica, anche quando non uccide. «E non creda che sono tutti pazienti ultraottantenni - puntualizza Molinero -. Sono persone dai 40 ai 70 anni, il più anziano di loro ne aveva forse 72». Storie di malati arrivati quasi tutti a fine primavera, inizio estate del 2020: «Con la seconda ondata - continua Molinero - ne abbiamo visti di meno, grazie anche all’evoluzione delle terapie mediche, che ha fatto sì che ci fossero meno danni importanti».
Il Covid ha stravolto la vita all’interno del centro di riabilitazione di Mozzo, nonostante la struttura sia sempre rimasta libera dall’infezione, anche nei mesi più duri: «Abbiamo avuto qualche paziente positivo - dice ancora il primario - ma è stato subito trasferito al Papa Giovanni; non potevamo permetterci focolai. Ma è stato un anno difficile lo stesso per tutti gli operatori: molti sono stati richiamati in ospedale e per mesi abbiamo lavorato con quasi la metà degli effettivi, riuscendo comunque a garantire tutte le prestazioni. Abbiamo dovuto riorganizzare gli spazi, dividere il settore dei pazienti esterni da quello della degenza; il trattamento non è stato più lo stesso e i percorsi di accompagnamento al ritorno a domicilio sono stati necessariamente sospesi». L’impossibilità di fare accedere, per mesi, i parenti all’interno della struttura è stato un altro duro colpo per l’attività di tutto il reparto: «I familiari sono parte integrante dell’équipe medica - dice Guido Molinero - la loro presenza e il loro contributo è fondamentale, non solo dal punto di vista psicologico, ma anche e soprattutto per il percorso riabilitativo dei pazienti».
Questa sera Guido Molinero lascerà un reparto che in quasi 35 anni di lavoro ha visto cambiare profondamente: «Trent’ anni fa l’età media dei pazienti era molto bassa, intorno ai 30-40 anni - racconta - oggi l’epidemiologia è cambiata, l’età media di coloro che sono affetti da mielolesione (lesioni spinali o midollari, ndr) è salita oltre i 50 anni. Questo perché gli incidenti stradali si sono ridotti, i sistemi di sicurezza delle automobili sono migliorati e c’è anche una maggiore consapevolezza nella guida, e più controlli delle forze dell’ordine. Anche il numero di questi pazienti è in calo, qui come altrove. D’altro canto, però, ci sono persone ricoverate più in là con gli anni, che sperimentano gravi patologie e che in qualche caso hanno anche altre malattie, tipiche delle persone di mezza età o anziane e che dunque fanno più fatica». Gli scatoloni sono già pronti: «Li poterò via questa sera - dice -. Dentro ci sono tantissimi bei ricordi, dei miei collegi, dei pazienti, dei volontari e di tutte le Direzioni dell’ospedale, che mi hanno garantito il loro supporto in tutte le scelte che ho preso in questi anni. Sono emozionato, triste, felice, ma soprattutto orgoglioso della mia famiglia professionale. Domani dovrò iniziare a sbrigare qualche commissione in città, poi dedicherò qualche giorno a me e alla mia famiglia. Ma non credo che resterò per tanto tempo con le mani in mano».
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