Guerra in Ucraina, da Bergamo a Chernivtsi per curare le ferite

IL PROGETTO. Nasce il Centro regionale per la pace nella città simbolo dell’incontro tra culture e religioni della Bukovina. «Spazio per aprire percorsi di ascolto e di dialogo oltre il conflitto».

A Chernivtsi, una città al confine tra Ucraina e Romania, in cui coesistono da secoli culture e religioni differenti, sta nascendo un germoglio di pace. E a credere in questa possibilità è un gruppo di persone tra Bergamo, Bruxelles e la città della Bukovina animate dal pensiero della studiosa francese Jacqueline Morineau, recentemente scomparsa, che ha speso tutta la sua vita a diffondere l’importanza della mediazione umanistica, ovvero della possibilità di esprimere le nostre differenze e riconoscere quelle degli altri anche nel disordine di un conflitto, aprendo così l’opportunità di generare qualcosa di nuovo e inatteso. Un principio valido sia nelle controversie personali sia in quelle internazionali.

In molti abbiamo ascoltato, con grande preoccupazione e un senso di impotenza, gli appelli ripetuti a intraprendere strade di dialogo e di pace lanciati da Papa Francesco e dal presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, in questi due anni di conflitto alle porte dell’Europa. C’è chi, pur nel caos della crescente spinta all’uso della forza e della violenza, ha cercato qualche timida strada alternativa: da una storia di amicizia e di stima reciproca che ha radici lontane è stato inaugurato il primo gennaio 2024 il Centro regionale per la pace in Ucraina con sede nell’Università di Chernivtsi. Un luogo che, giorno dopo giorno, cerca di fare breccia nello stato di guerra in cui sono sprofondate l’Ucraina e la sua gente, attraverso la creazione di uno spazio di ascolto delle ferite che il conflitto sta lasciando, ma anche di dialogo con l’esterno, con l’Italia e l’Europa.

Da anni Bergamo ha aderito e dato forma alle pratiche di giustizia riparativa che si ispirano al pensiero di Morineau: grazie alla Caritas diocesana bergamasca ha preso vita il Centro di giustizia riparativa che oggi è portato avanti dall’associazione InConTra, guidato dalla presidentessa Anna Cattaneo. «Ho vissuto tanti anni in Caritas e riconosco l’importanza dei luoghi, degli spazi, per tutti: senza una casa, senza un dormitorio, un povero muore – spiega don Claudio Visconti di Bergamo, già direttore della Caritas diocesana bergamasca e oggi responsabile della Pastorale italiana della diocesi di Bruxelles e direttore del Foyer Catholique Européen –. Senza un luogo di mediazione, di incontro, tante relazioni, magari incrinate, muoiono. La prima intuizione fu del cappellano del carcere don Virgilio Balducchi che vedeva tanta sofferenza negli autori dei reati e altrettanta nelle vittime degli stessi. Sofferenze sconosciute gli uni agli altri, sebbene coinvolti nello stesso fatto, sofferenze che non portavano a niente. Una sofferenza che non soddisfava i colpevoli per l’impossibilità anche solo di chiedere perdono; e non soddisfava le vittime, nelle quali si acuiva piuttosto un senso di frustrazione e un desiderio di vendetta. Serviva un luogo in cui, in qualche modo, nella libertà, qualora si fossero verificate le condizioni, colpevoli e vittime potessero essere ascoltati da qualcuno, potessero esprimere il loro star male e le loro ragioni, al di fuori e al di là delle aule giudiziarie e dei contesti penali, e magari un giorno parlare anche tra loro».

«Nelle prime fasi dello scoppio della guerra in Ucraina – spiega Filippo Vanoncini, vicepresidente dell’associazione InConTra – abbiamo avviato come Centro di giustizia riparativa di Bergamo una serie di incontri di ascolto con i profughi che arrivavano in Bergamasca, a Brembate di Sopra, grazie alla presenza sul nostro territorio di Sofia Dutchack, mediatrice umanistica ucraina e traduttrice del libro di Jacqueline Morineau, La mediazione umanistica in lingua ucraina e pubblicato per la prima volta nel settembre 2022 nel Paese. Oltre all’attività di ascolto a Bergamo con il sacerdote ortodosso Lazzaro Leonardo Lenzi e la stessa Sofia Dutchack, abbiamo avviato degli incontri su piattaforma online tra docenti dell’Università di Chernivtsi, uno dei più antichi e prestigiosi atenei europei, con la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Bergamo grazie alla collaborazione con Anna Lorenzetti, docente di diritto costituzionale e della prorettrice alla terza missione e ai rapporti con il territorio Elisabetta Bani». Con il sostegno di don Claudio Visconti, presidente dell’associazione Nathan che da anni sostiene i percorsi di giustizia riparativa, è stato possibile dare vita a scambi tra docenti italiani e ucraini in una Summer School a Bergamo e poi al Centro di Chernivtsi grazie a un International exchange agreement tra atenei.

«I momenti più significativi per noi sono stati poi i viaggi a Chernivtsi a fine 2022 e nell’estate 2023: pochi giorni in cui ci siamo resi conto di quanto uno stato di guerra permanente può portare alla disumanizzazione delle relazioni» spiega Vanoncini. A Vanoncini, Lenzi e Dutchack si sono uniti don Visconti, che ha alle spalle un’esperienza molto lunga di conoscenza diretta del conflitto in ex Jugoslavia e in altre zone di crisi internazionale e Elisabetta Bani. Chernivtsi è una città sul confine tra Ucraina e Romania, soprannominata la piccola Vienna per il suo passato austro-ungarico o piccola Gerusalemme (per la comunità ebraica spazzata via dalla seconda guerra mondiale di cui è rimasto un grande cimitero pieno di storia), dal 1991 è nell’Ucraina indipendente ed è conosciuta come città patrimonio Unesco dell’umanità e per la storia della sua prestigiosa sede universitaria. Anche qui, almeno da due anni a questa parte, si sentono con regolarità le sirene che annunciano attacchi aerei dei russi, ma nessuno ci fa molto caso: la vita continua a scorrere quasi come se il Paese non fosse ormai in guerra da molto tempo.

Anche se non si vive la minaccia diretta delle bombe per la propria incolumità fisica la vita di questa città e dei suoi abitanti è stata completamente sconvolta: Chernivtsi infatti è una delle mete di maggior transito per chi fugge dal conflitto. Nel Sud-Ovest del Paese è diventata un centro di smistamento per gli aiuti umanitari e per gli sfollati interni, almeno 60mila solo nel primo anno di conflitto su una popolazione di 300mila abitanti. L’università ha dovuto ripensare le lezioni riducendo le presenze in aula in modo da essere certi di poter ospitare nei rifugi il numero di studenti presenti in ateneo in caso di bombardamenti. I docenti maschi non possono lasciare il Paese e molti sono stati richiamati al fronte. «La città che nel corso dei secoli è stata un punto di incontro tra culture e religioni diverse è ora messa alla prova dall’accoglienza di tanti sfollati» ricorda Vanoncini.

«Quattro giorni di viaggio mi hanno cambiato dentro», scrive il sacerdote ortodosso Lenzi nel suo diario ripercorrendo l’esperienza del 2022 . «Non c’è luce nelle strade in Ucraina, per il resto la città pulsa di una vita irresistibile. Le sirene sono un suono lontano, molto di più servono gli alert sul cellulare. Gli studenti scendono nei rifugi e fanno lezione da lì». «Una ragazza mostra un disegno dell’Ucraina con tutti i confini intatti: tutti parlano di “vittoria”, mai di “pace”: non ho individuato una sola screpolatura nella compattezza assoluta del popolo ucraino». Per strada Lenzi osserva un’antica sinagoga trasformata in cinema, un soldato in mimetica con la sua bimba al ristorante: «È in permesso, è una scena tenera, ma lui se lo guardi, ha gli occhi vuoti». «Ridere, giocare, piangere, lavorare, sentire quel solito fastidio alla schiena, tutto assume un significato leggermente differente, ma lo capisci un po’ dopo».

Il Centro regionale per la pace, diretto da Dutchack, si impegna per ridare luce agli occhi spenti di un soldato o a mettere a fuoco quella vita leggermente fuori fuoco. «Potremmo dire che il Centro è una casa dove, attraverso il dialogo, soprattutto a fronte di ferite aperte, si curano i cuori, le relazioni; una casa di cura in umanità – spiega don Visconti –. E quel che vale per la singola persona, vale anche per noi come gruppo, come comunità. Abbiamo bisogno di essere ascoltati, di parlare e pure di ascoltare in quel dialogo che costruisce l’umanità dei popoli che fa la storia. Penso che il Centro, posto nella città, possa generare in tutti sentimenti di profonda umanità».

«Sono già stati avviati gruppi di ascolto con gli sfollati grazie all’esperienza di Sofia ma anche aperti a persone e giovani che hanno visto le loro vite sconvolte – spiega Vanoncini –. Dall’interscambio tra docenti è nato un accordo tra atenei. Per gli insegnanti ucraini uscire dai confini per partecipare a una Summer School in Italia o a Bruxelles rappresenta la possibilità di una boccata d’aria fresca e una nuova visione. Non ultimo speriamo di creare una rete di sensibilizzazione in Italia e in Europa di mediazione grazie all’appoggio di don Claudio. Non bisogna smettere di credere che un’altra strada è possibile» conclude Vanoncini.

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