Cronaca / Bergamo Città
Martedì 17 Marzo 2020
«Gli elementi primordiali riemergono»
L’intervista a Biza: stiamo attenti
Lo psichiatra Massimo Biza si sofferma sulla reazione della società ai cambiamenti imposti dal coronavirus. Alla gente non sembra importare della sorte degli anziani, considerati gli anelli più deboli. Ma non è così.
«Questa per noi è una “prima volta” in generazioni di individui che credevano di essere totalmente esenti dalle pestilenze. Siamo di fronte a un fenomeno che anche sotto il profilo psicologico e sociale sarà tutto da studiare. Nessuno poteva pensare che nel 2020 ci potessimo trovare completamente immersi in una situazione come questa, così drammatica e così surreale».
Massimo Biza, primario emerito dell’ospedale Papa Giovanni XXIII, per anni responsabile del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’ospedale cittadino, guarda con preoccupazione a come la società sta reagendo ai nuovi comportamenti imposti dall’emergenza coronavirus e condanna senza tentennamenti la superficialità iniziale con cui si è affrontato il problema.
Cos’è successo professore?
«Non c’è niente da fare. Di fronte a situazioni come queste, l’essere umano ha sempre reagito così e continuerà in eterno a reagire così. Quando già all’inizio di gennaio, scorrendo i social, ho visto molte posizioni critiche nei confronti degli scienziati che davano chiari e perentori segnali di serietà e di preoccupazione su quanto stava avvenendo, , non mi sono stupito più di tanto, perché l’essere umano tende “naturalmente” a nascondere la morte, a far finta che non ci sia. E la sottovalutazione degli allarmi degli scienziati è la cosa più ovvia che poteva succedere, ma purtroppo anche la più pericolosa, come poi di fatto è avvenuto».
Frutto della società della complessità che semplifica tutto per non capire nulla, o è qualcosa di diverso?
«Noi non siamo in grado di tollerare l’idea della morte. Punto».
E quindi come reagiamo?
«O con la superstizione, legandoci a riti, amuleti, convinzioni, convincimenti, grazie ai quali ci sentiamo protetti, oppure facendo finta che la morte non esista».
Non è un po’ poco?
«Certo, ma purtroppo gli esseri umani sono fatti così, e sono fatti così nella stragrande maggioranza dei casi. E in una situazione di questo tipo, che coinvolge tutti, i comportamenti che alla fine emergono sono quelli della maggioranza. Spesso negativi».
Segno di un degrado culturale sempre più profondo?
«Perché dovremmo avere un degrado culturale? Abbiamo istituito la scuola dell’obbligo e abbiamo portato alla laurea fasce di popolazione che cento anni fa erano lontanissime dall’ipotesi di poter leggere un libro. In teoria, quindi, dovremmo essere in una situazione migliore rispetto a quella di un secolo fa. E invece la gente, malgrado laureata, malgrado abbia studiato, continua a comportarsi esattamente come quando non sapeva nemmeno leggere. È un meccanismo psicologico di base quello di fingere che la questione non esista. Basta guardare con attenzione la differenza delle reazioni emotive tra i giovani e i giovanissimi, e gli anziani. Gli anziani sono preoccupati, i giovani assolutamente no: si preoccupano per cinque, dieci minuti, poi non ci pensano più, e sono pronti a vivere esattamente come quattro mesi fa, non sono assolutamente coinvolti sotto il profilo emotivo dalla paura del contagio. Ci sono modalità diverse di approcciare la questione e che dipendono dall’età, non dalla cultura, non dalla società in sé, ma semplicemente dalla condizione di ciascuno. Quando si parla di morte, se hai 20 anni, la morte non esiste. Se ne hai 60, 70, o 80, hai già cominciato a farci dei conti, a prescindere dal contagio. Per cui, la questione coronavirus la vedi in maniera molto pessimistica, che probabilmente è la più realistica ed è quella che dovrebbero adottare tutti, ma che molti invece non adottano. Per la stragrande maggioranza delle persone il coronavirus è diventato una barzelletta. C’è un ultimo aspetto che non va trascurato, ed è quello legato alla percezione che si ha della malattia: è qualcosa che riguarda altri, è qualcosa che riguarda quelli che sono in ospedale, non me...».
Perché c’è sempre questo «Super-io»?
«Perché è l’unica maniera per sopportare questa situazione. Perché siamo così fragili che essere consapevoli della realtà del rischio è intollerabile, ti provoca un’angoscia tale che si sta male. E allora la difesa cos’è? Negare che sia un problema. E difatti tutti sollevati quando è comparso qualcuno a dire: “Ma è una influenza, insomma, non è poi così grave, muoiono un po’ di anziani, ma nulla di più”. La gente si è sentita sollevata, ma far circolare simili idiozie è stato un errore drammatico».
Quanto pesa il fatto che si sta combattendo un nemico che non si vede?
«Molto. Quando sopra la città, nel ‘44, passavano gli aeroplani che andavano a bombardare Milano, non importava niente a nessuno, ma quando le bombe sono cadute a Dalmine, allora tutti hanno capito che la storia era diversa. Per preoccuparti, deve succederti il morto nella casa a fianco, o addirittura in casa tua, allora sì che scoppia la preoccupazione vera. Ma a quel punto è tardi. Ecco perché queste questioni, secondo il mio parere di psichiatra, dovrebbero essere gestite “alla cinese”. Una situazione così non la si può trattare in maniera democratica, perché se ascolti il parere di tutti, non decidi mai niente. È una modalità di approcciare il problema per noi incomprensibile, ma in questi momenti non ci si può aspettare che la gente dimostri una capacità di maturità super-umana. Le decisioni devono essere prese da qualcuno che sa fare il suo mestiere e poi impone a tutti un certo tipo di comportamento».
E invece è bastato che una mattina sui social dicessero tutti che stare chiusi in casa era intollerabile per riportare tutti in strada.
«Esatto. Andiamo tutti a cena e facciamo una bella festa. Al contrario, non capisco la paura che spesso si ha di impaurire la gente dicendo le cose come stanno. Che vadano in queste ore in un ospedale a vedere cosa succede, come muore la gente malata di coronavirus, che si rendano conto di cosa vuol dire per medici e infermieri assistere questi malati. Sarebbe una lezione di vita indimenticabile. Davvero di fronte a una tragedia di questa portata è un problema rinunciare all’economia di sei mesi? Certo, è un problema enorme quello economico, ma vogliamo parlare del Pil quando, solo nella nostra terra, decine e decine di persone muoiono ogni giorno stroncate dal virus? Alla fine l’economia ripartirà, proprio come dopo la fine della guerra».
Ecco, la guerra. Se l’emergenza coronavirus fosse avvenuta nel 1955, dieci anni dopo la fine del conflitto bellico, quale sarebbe stata la reazione degli italiani?
«Credo che quegli italiani sarebbero stati molto più disciplinati. Quegli italiani che alla fine della guerra si erano rimboccati le maniche e avevano rimesso in piedi un Paese dopo aver visto gli orrori della guerra, dopo aver visto davvero la morte in faccia, sarebbero stati molto più rispettosi nell’affrontare un problema di questo tipo».
Anche la politica si sarebbe comportata in modo diverso?
«La politica ha dimostrato sottovalutazione, sciatteria. Quando i migliori scienziati del Paese ti dicono “attrezziamoci perché se andiamo avanti così non avremo più letti”, un atteggiamento di melina è intollerabile. E il tira -molla per la zona rossa tra Alzano e Nembro? Guardi cos’è successo per non averla fatta subito: siamo diventati l’epicentro del Covid-19 nel Paese…».
Che conseguenze può avere un atteggiamento come questo?
«Quelle che abbiamo visto. La gente non assume su di sè la preoccupazione: se chi ci governa non fa trasparire la drammaticità del momento fin dal suo inizio, vuol dire che la situazione non è poi così grave. E invece se tutti gli italiani si fossero messi in quarantena per 45 giorni avremmo forse già risolto il problema».
Che strascichi lascerà il Covid-19?
«Innanzitutto sarà una tragedia dal punto di vista delle relazioni umane, anche perché lo spettro del coronavirus aleggerà per molto tempo ancora. Poi ci saranno le ricadute sull’organizzazione del sistema sanitario, e sarà necessario avere le risorse necessarie per rafforzarlo. Non dimentichiamoci che quanto sta succedendo può tranquillamente ripetersi nel giro di qualche anno. Quanto all’aspetto economico sarà un altro dramma, che purtroppo non si risolverà rapidamente. Prima di ripartire sul fronte economico è necessario presentarsi al mondo “ripuliti” dal virus e il fronte sanitario è necessariamente il primo che va risolto, costi quel che costi. E risolverlo, abbiamo visto l’esperienza cinese, è possibile. Una volta “esenti” dal virus, allora le fabbriche cominceranno a ripartire, la gente comincerà a tornare in Italia e l’economia tornerà a girare. Ma è impensabile riuscire ad affrontare le due cose insieme. A voler salvare capra e cavoli non si ottiene nulla».
Cosa può creare, dal punto di vista psichiatrico, tutta questa vicenda?
«Tanto per cominciare, ansia, da cui la gente si difende negando la morte, anche se quando il tema della morte ci sfiora crea una serie di problematiche difficili da gestire».
E dal punto di vista sociologico?
«I dati dicono che gli anziani rischiano molto di più e questo non ha fatto altro che tirar fuori un fattore umano connaturato alla nostra animalità, che vede i più deboli al centro di atteggiamenti di scherno se non addirittura violenti. Noi pensiamo di essere diventati saggi e integerrimi, di aver da tempo archiviato questi atteggiamenti intollerabili, perché gli anziani sono al centro delle nostre attenzioni, così come i portatori di handicap, i disabili psichici e via di questo passo. In duemila anni di storia abbiamo fatto passi da gigante, ma tragedie come queste - facendo riemergere elementi istintivi e animaleschi - riescono a mettere in forse il modo di funzionare di una società che era diventata adulta. Muoiono i vecchi? A chi importa, ce n’è troppi, saranno contenti quelli dell’Inps. Dimenticandosi invece, come recita un vecchio detto africano, che un vecchio che muore è una biblioteca che brucia».
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