
Cronaca / Bergamo Città
Sabato 12 Aprile 2025
«Covid, trauma nella memoria collettiva. Cresciuti del 20% i disturbi tra i giovani»
L’INTERVISTA. La psichiatra Emi Bondi: «Dopo 5 anni mancano studi sugli effetti a lungo termine. Unità nella prima ondata, poi l’individualismo».
Un «trauma collettivo». Cinque anni dopo, il dramma del Covid può essere riletto anche così: come «quegli eventi sociali di particolare rilevanza che coinvolgono tutta la popolazione e che restano anche nella memoria collettiva, sino a far parte dell’identità di un gruppo di persone». È la sintesi tracciata da Emi Bondi, presidente della Società italiana di psichiatria e direttore del Dipartimento di Salute mentale e delle Dipendenze dell’Asst Papa Giovanni, nel tradizionale congresso di psichiatria in corso a Bormio da giovedì fino a domenica e giunto alla 26ª edizione. «Il tema del congresso – spiega Bondi – era proprio quello del trauma e dei fattori che lo rendono imprevedibile, perché alcuni soggetti riescono a superarlo, mentre altri vengono travolti, con conseguenze psichiche forti. Abbiamo voluto inserire anche il Covid in questa riflessione».
Dottoressa Bondi, che trauma è stato – ed è tuttora – il Covid?
«Un grande trauma collettivo, con indubbie conseguenze sulla salute mentale e scandito da almeno due fasi. La prima è legata all’immediatezza dell’esplosione della pandemia, il momento dell’emergenza, quando già si vide un incremento elevato di disturbi ansiosi e depressivi, con donne, bambini e anziani quali soggetti più vulnerabili».
E poi?
«E poi una seconda fase legata alle ondate successive, in particolare quelle del 2021 e 2022, in cui sì erano già arrivati i vaccini, ma si vedevano in modo più nitido le conseguenze del lockdown e della chiusura, che sappiamo essere stata particolarmente drammatica per i giovani. Le conseguenze psichiche maggiori le hanno subite i ragazzi, con una crescita degli agiti autolesivi, dell’incidenza dei disturbi del comportamento alimentare, dell’ansia e della depressione».
Ma il Covid è stato una causa scatenante o un acceleratore di un fenomeno che già attraversava la società?
«Il Covid ha fatto da acceleratore di determinate ondate di vulnerabilità che già stavamo vedendo almeno dal 2010, scatenando una insorgenza precoce o accentuandone i disturbi. Ma c’è stato anche un impatto culturale sulla società».
Di che tipo?
«Nella prima ondata, davanti al pericolo improvviso che ha colpito tutti, c’è stato un momento di grande vicinanza collettiva, di resilienza: nel condividere una “battaglia”, la gente ha trovato un motivo di forza per andare avanti. Anche i sanitari hanno dato tantissimo in quel periodo, reggendo ritmi non indifferenti di fatica e di stress, proprio perché c’era questa forte unione collettiva. In un momento di disperazione, tragedia, lutto e dolore dei singoli, la società ha mostrato una resistenza importante».
Ma poi quella società è parsa sfilacciata. Gli stessi sanitari, ad esempio, sono diventati bersaglio di campagne di disinformazione o addirittura aggressioni.
«Alla prima fase è seguito quasi l’esatto contrario. A tempo di record la scienza ha creato i vaccini che hanno consentito di debellare la malattia. Ma anziché aumentare la fiducia nella scienza, è arrivata la fase del negazionismo: è emerso un individualismo esasperato in cui non si accettavano le regole e si mettevano in dubbio il valore della scienza, dell’informazione e dell’oggettività. L’individualismo sfrenato è un problema della nostra società».
E si è arrivati anche alla «rimozione» dell’esperienza del Covid?
«In alcune fasce di popolazione c’è stato un bisogno di rimuovere, come avviene dopo i traumi, per dirsi che tutto ciò non era mai esistito e per riprendere da dove eravamo rimasti prima del Covid».
Cosa ci dice oggi la ricerca scientifica, e in particolare la psichiatria, sulle conseguenze del Covid a cinque anni di distanza dall’inizio di questa storia?
«Nel mondo sono stati pubblicati circa 44mila articoli scientifici sul Covid: la maggioranza di questi sono riferiti ai primi due anni, all’immediatezza dell’emergenza e agli effetti nel breve periodo. Nell’ultimo biennio sono invece crollati gli studi, e non ce ne sono sugli effetti sul lungo termine».
E l’esperienza quotidiana in ospedale e sul territorio cosa porta a osservare?
«Anche le evidenze portate al convegno segnalano l’impatto profondo. In alcune aree del Paese si è arrivati al raddoppio degli accessi in pronto soccorso per disturbi psichici rispetto al pre-Covid. Tra i più giovani, anche per via dell’esordio precoce dei sintomi, le diagnosi di disturbi sono aumentati del 20-23%, così come è aumentato anche l’uso di sostanze stupefacenti. Sono i dati certi di un disagio che non è legato solo al Covid, ma a una più ampia sfera di eventi emotivi destabilizzanti che hanno attraversato la società in questi ultimissimi anni».
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