«Covid, 5 anni fa la tempesta imprevedibile»

LA PANDEMIA. Il 22 febbraio 2020 si registrò il primo caso sospetto al Papa Giovanni, poi escalation a 550 posti letto. Stasi: «In ginocchio in pochi giorni». L’allora direttore sanitario: «Investimenti sulla sanità? Promesse non mantenute».

La Cina sembrava lontana, Codogno un po’ meno. Fu allora, quando il virus comparve in terra lodigiana, cinque anni fa esatti, che l’allerta montò davvero. In realtà, probabilmente il Sars-CoV-2 già circolava anche qui: rapidissima e violenta, la catena del contagio diventò uno tsunami che s’abbatté su Bergamo con inedita ferocia. A resistere nella tempesta pandemica c’era il «Papa Giovanni XXIII», sino a diventare la più grande terapia intensiva Covid d’Europa.

Impossibile dimenticare l’inizio di tutto. «Quella settimana ero stato a San Siro per Atalanta-Valencia, poi avevo alcuni giorni di ferie: alla notizia del primo caso di Codogno, rientrai subito in ospedale. C’era la necessità di affrontare l’emergenza», ricorda Fabio Pezzoli, una vita dedicata all’ospedale di Bergamo e all’epoca direttore sanitario dell’Asst.

«Il timore divenne certezza»

Sabato 22 febbraio 2020 l’ospedale di Bergamo registrava il primo caso sospetto: l’indomani, al mattino presto, quando un fax in arrivo dall’ospedale San Matteo di Pavia indicava l’esito positivo del tampone, il timore divenne certezza. «Da lì cominciò l’escalation – ricorda Pezzoli –. Iniziarono le riunioni dell’Unità di crisi una o due volte al giorno e si iniziò a rivoluzionare l’ospedale: dapprima si occuparono i letti del reparto di Malattie infettive, ma presto fu necessario convertire altri reparti, fino ad arrivare a 550 posti letto, e con oltre 80 posti di terapia intensiva. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, ne sono convinto».

La mente torna ancora più indietro, a quando dalla Cina iniziò a giungere la notizia di un virus ignoto. «Bisogna ammettere che nessuno pensava potesse succedere quel che è accaduto – riconosce Pezzoli –. All’inizio la Cina sembrava lontana, poi si pensava che il caso di Codogno potesse essere circoscritto. Nessuno ci aveva avvisato della portata della pandemia, neppure i cinesi che ne erano al corrente. All’inizio non c’era allarme: l’unico precedente simile era stato la Sars, che però si risolse in maniera limitata». Fu invece la tempesta perfetta: «Arrivammo a 550 ricoverati e iniziammo a mandare dei pazienti in Germania – prosegue Pezzoli –. Registravamo 20-25 morti al giorno, l’angoscia era fortissima, si pensava di non farcela. Poi verso fine marzo i numeri iniziarono a stabilizzarsi: si cominciò a respirare e si superò il picco». Perché proprio a Bergamo? La domanda è martellante da cinque anni, ma «ancora non c’è una risposta», rileva il medico.

La distanza del tempo consegna anche una valutazione netta: «Si diceva che dopo il Covid tutto sarebbe cambiato in meglio. Invece – sospira Pezzoli – bisogna riconoscere che non c’è stato il giusto salto di qualità negli investimenti in sanità. Le promesse fatte non sono state mantenute: il personale è aumentato di poco, sulla medicina di territorio si sta facendo qualcosa solo adesso con le Case di comunità».

«La madre di tutte le esperienze»

Per Maria Beatrice Stasi, direttore generale dell’Asst Papa Giovanni dal 2019 al 2023, «la lotta al Covid è stata «la madre di tutte le esperienze». Dimenticare è un lusso per chi si è autoconvinto di aver vissuto il Covid senza averlo davvero visto passare, un lusso che a noi, testimoni privilegiati, non è concesso».

«Dopo il primo caso di Covid a Codogno, non si contano le nostre istruzioni operative per i reparti, i visitatori, i volontari»

Il ricordo parte dalle primissime notizie dalla Cina, «parziali e confuse»: «Come tutti gli addetti ai lavori – prosegue Stasi – seguivo attentamente le notizie e dalla direzione giravamo come da prassi tutte le informazioni provenienti da Regione e ministero della Salute alla nostra direzione medica e ai nostri infettivologi. Poi la notizia della coppia di turisti cinesi positivi al Covid e portati allo Spallanzani a Roma: mentre questi turisti venivano controllati e curati con grande accuratezza, ancora non sapevamo che la fatica più grande per noi sarebbe stata trovare un letto ai pazienti bergamaschi». Si arriva così al Lodigiano: «Dopo il primo caso di Covid a Codogno, non si contano le nostre istruzioni operative per i reparti, i visitatori, i volontari. Quello che non sapevamo è che dal 22 febbraio 2020, data di istituzione dell’Unità di crisi del “Papa Giovanni”, la crescita del virus a Bergamo sarebbe stata esponenziale, mettendoci in difficoltà nel giro di pochi giorni – riconosce l’ex dg –. Inizialmente fu difficile far capire, non dico a Roma ma addirittura a Milano, che cosa stava succedendo a Bergamo».

La bufera ormai infuriava

«Il 3 marzo 2020 la nostra direzione sanitaria tenne una conferenza stampa: volevamo raccontare con trasparenza quello che stavamo vivendo – spiega Stasi –. Era emersa la notizia che avevamo ricoverato anche un neonato positivo al Covid: credo che a partire da quel giorno ci fu la prima consapevolezza di ciò che a Bergamo stava davvero succedendo. Quanto dolore abbiamo interiorizzato da allora».

Da lì, cominciò «una fase difficile in cui i nostri ospedali si riempivano, i dispositivi di protezione arrivavano con il contagocce e iniziammo a organizzare una distribuzione ancor più rigorosa dei dispositivi, avendo in alcuni giorni scorte con un orizzonte temporale di un solo giorno. In quei giorni – conclude Stasi – ho imparato davvero il significato della parola “provvidenza”».

© RIPRODUZIONE RISERVATA