Cronaca / Bergamo Città
Sabato 30 Marzo 2019
Ceruti: troppa Europa?
«Semmai troppo poca»
Quarta puntata dell’ampia inchiesta de «L’Eco di Bergamo» sull’Europa, otto interviste (sempre di sabato) ad altrettante grandi figure della politica e della cultura, protagonisti di primo piano del dibattito nazionale e internazionale. Non si tratta di un avvicinamento alle elezioni del prossimo 26 maggio, ma di un modo di riflettere sulle sfide di un’esistenza che faccia della partecipazione uno stile. Dopo lo storico Andrea Riccardi, il filologo Carlo Ossola e l’insigne giurista Sabino Cassese, è la volta del filosofo della complessità Mauro Ceruti. Con loro faranno parte di questa «carrellata» anche l’economista Stefano Zamagni, gli ex premier Paolo Gentiloni e Mario Monti, e il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani.
Soffiano venti freddi sull’Europa: non sono in crisi tanto l’economia, o la tecnocrazia, è il suo spirito profondo a sembrare smarrito, nel sentimento comune di questi ultimi anni.
Professore, è una crisi grave?
«Oggi dell’Europa paventiamo persino il possibile disfacimento. Le conquiste del secondo dopoguerra non appaiono più né scontate né irreversibili».
Brexit, ritorno dei sovranismi… Si rischia davvero una implosione?
«Negli ultimi decenni si sono scatenate due forme di barbarie: quella del jihadismo, una violenza culturale e politica che riecheggia quelle del nazismo, dello stalinismo, del maoismo; ma anche la minaccia dello strapotere del profitto, della competizione estrema, di una finanza rapace e irresponsabile. Oggi non c’è troppa Europa, ma troppo poca. Certo, il paradosso e il dramma sono che l’attuale classe politica è svuotata di pensiero, è suddita di una finanza insaziabile. Per questo la probabilità oggi è a favore della disgregazione dell’Europa. Ancora una volta la rinascita, se ci sarà, sarà figlia dell’improbabile. Ma ciò richiede una svolta».
Partiamo dall’inizio: cos’è esattamente l’Europa? Un insieme di Stati con una storia simile?
«Anzitutto l’Europa non è una “cosa”. Soprattutto non è un territorio. Non è una Fortezza. Europa è quell’identità culturale che si estende al di là dell’Europa geografica, e che è nata con la filosofia greca, che si manifestò come pòlemos, conflitto, nel senso di dialogo. Ecco, il discorso europeo è dialogo. L’Europa è la consapevolezza che la propria identità si costruisce nel rapporto con l’altro. Insomma, Europa è un nuovo atteggiamento di alcuni uomini verso il mondo circostante. E proprio a causa di questo atteggiamento essa resta sempre incompiuta, come un progetto ancora da realizzare. Si declina sempre al futuro. Europa è una civiltà in metamorfosi continua. Affronta in forme sempre nuove una tensione ricorrente fra unità e molteplicità, fra identità e diversità. Ecco: l’Europa è la storia della continua sperimentazione di risposte a questa tensione. L’Europa è diritto e arbitrio, democrazia e oppressione, dignità umana e razzismo. Civiltà e barbarie, insomma, si sono intrecciate in tutta la sua storia. L’Europa ha creato straordinarie forme di civiltà quando il suo spirito ha prevalso, quando unità e molteplicità si sono alimentate reciprocamente. Ma è stata anche più volte sull’orlo dell’inabissamento».
È una crisi culturale, la nostra, prima che economica?
«Tutte le crisi dell’umanità sono crisi cognitive, che rendono urgente una riforma del pensiero e una riforma dell’educazione. L’ostacolo alla comprensione delle crisi non sta solo nella nostra ignoranza: si annida anche e soprattutto nella nostra conoscenza. La specializzazione disciplinare ci ha reso incapaci di cogliere i problemi multidimensionali e globali che abbiamo di fronte a noi. L’università e la scuola ci insegnano a separare le discipline le une dalle altre, non a collegare. Questo ci rende incapaci di cogliere il complesso, “ciò che è tessuto insieme” - secondo il significato originario del termine».
Gestire la complessità è stato invece – un po’ come avvenne nell’antichità sotto l’impero di Alessandro Magno - il vero genio dell’Europa.
«Mille anni fa l’Europa ha creato l’Università proprio come luogo di fecondazione fra saperi molteplici e plurali. E l’Università, a sua volta, ha creato e nutrito e sostenuto l’Europa: le sue classi dirigenti, la sua faticosa ma irreversibile presa di coscienza dei diritti umani, i suoi progressi economici, sociali, scientifici, tecnologici. L’Università e la scuola però oggi rischiano di crollare sotto il peso di specialismi chiusi, incapaci di dialogare. Negli ultimi anni c’è stata una spinta verso un adattamento eccessivo dell’insegnamento a esigenze sociali e professionali immediate, ponendo la cultura umanistica ai margini del sapere. Ma l’adattamento sistematico alla “domanda” irriflessa che proviene dalla società non è mai stato un segno di vitalità».
Nel suo saggio «Il tempo della complessità» lei chiede di riconciliare tecnoscienze e saggezza, stipulando una nuova alleanza tra uomo e ambiente: un tema a cui sembrano sensibili soprattutto le ultime generazioni.
«Uno dei capisaldi della scienza e della filosofia moderne è stato l’idea che l’uomo sia il dominatore della natura. Proprio i suoi successi, tuttavia, lo hanno portato a diventare il devastatore della natura, e alla fine anche di se stesso. Abbiamo urgentemente bisogno di un paradigma ecologico, di una nuova cultura che concepisca il progresso non come sfruttamento della natura ma come co-evoluzione dell’uomo e del suo ambiente. Per la prima volta nella storia la biosfera nel suo insieme è minacciata: il cambiamento climatico e le armi nucleari sono pericoli enormi e assolutamente reali. E ciò che finora abbiamo chiamato “progresso” rischia di essere un ostacolo al progresso futuro delle stesse condizioni di esistenza dell’umanità».
Il progresso va continuamente sorvegliato?
«Non tutto quello che si può fare si deve fare. Oggi, proprio a causa dei risultati della tecno-scienza, la responsabilità morale nel decidere come e quando fare ciò che si può fare è il tema costantemente all’ordine del giorno».
Persino Papa Francesco – lei ricorda - reclama da noi «un’altra rotta».
«È urgente cambiare paradigma. Le visioni dominanti della politica e dell’economia si basano, secondo le parole del Papa, su di una “fiducia irrazionale nel progresso e nelle capacità umane”. Ma l’idea che il progresso sia assimilabile alla crescita è fallita. Negli ultimi decenni la storia non è andata verso il progresso garantito, ma verso una straordinaria incertezza. Bisogna ripensare l’idea stessa di progresso, bisogna misurare la crescita in termini diversi da quelli puramente quantitativi del Pil, mettendo in campo gli indicatori dello sviluppo umano».
Osserviamo una chiusura progressiva delle nostre società, il terrorismo internazionale ha diffuso i germi di una latente minaccia che può arrivare dal nostro interno. Questo spinge molti a chiedere una risposta «di ordine».
«Il dilagare dell’integrismo jihadista costituisce un attacco forse senza precedenti. La reazione però deve essere alla profondità antropologica della posta in gioco. Bisogna ribadire che lo sguardo e l’ascolto dell’altro sono il motore e la precondizione del nostro stesso sviluppo. Dinanzi a chi sostiene l’inevitabilità dello scontro di civiltà dobbiamo chiarire che quello che ha attualmente luogo è uno scontro entro ogni civiltà, che taglia trasversalmente ogni confessione, ogni cultura, ogni nazione».
C’è chi vorrebbe fare del Mediterraneo una frontiera, per difendersi.
«L’Europa non può definirsi attraverso una frontiera con l’Africa. Sin dai tempi più remoti il Mediterraneo è stato percorso dagli scambi e dalle ibridazioni fra le popolazioni di tutte le sue coste, e di tutte le sue isole. Una prima unificazione d’Europa ebbe luogo già nell’evo antico, quando il mare che oggi chiamiamo Mediterraneo si trovò al centro dell’Impero romano. Allora divenne mare nostrum, il “nostro mare”, una sorta di lago interno a una civilizzazione comune. Da allora, il Mediterraneo è sempre stato un mare di incontri fecondi e rotture tragiche fra Est e Ovest, Sud e Nord, sempre solcato da relazioni, conflitti, migrazioni. Il grande storico Fernand Braudel considerava il Mediterraneo come il luogo della più straordinaria mescolanza di razze, religioni, costumi, civiltà che la Terra abbia mai conosciuto».
La Cina sta tentando, proprio con l’Italia, un approccio inedito all’Europa, forse pensando di staccarla da quell’«Occidente» - l’alleanza con gli Stati Uniti – che ha caratterizzato gli ultimi cent’anni di storia, di economia, di guerre.
«L’Europa non può nemmeno definirsi attraverso una frontiera con le Americhe. Nell’età moderna l’Atlantico è divenuto il luogo dello sviluppo dei suoi commerci e delle sue politiche. Sul suolo americano gruppi e popoli europei, rimescolandosi, hanno dato origine a “nuove Europe”. Che si sono poi delineate anche in Australia e in Nuova Zelanda, ai nostri antipodi. Dunque: dove è l’Europa? L’Europa trascende sempre se stessa».
Gli Stati nazionali è qui che sono stati inventati. Come si può pensare di superare questa forma politica? Le resistenze sono molto forti.
«Nel cuore stesso d’Europa le confessioni cristiane - cattolici e luterani, calvinisti, anglicani - si sono combattute a lungo in epoca moderna. La guerra dei Trent’anni (1618-48) provocò 5 milioni di morti e spopolò quasi completamente il suolo tedesco. Nel 1648 la firma della pace della Westfalia, con il famoso motto “cuius regio, eius religio” inaugurava un mondo nazionalista, in cui non c’era più posto per grandi compagini statali a confessioni miste. E la religione di Stato fu la premessa su cui si costituì l’idea dello Stato nazionale, quale strategia geopolitica e antropologica per tenere a bada la tensione fra identità e diversità. Le comunità nazionali hanno promosso un’omogenizzazione politica e culturale che ha avuto anche un lato oscuro. L’integrazione ha spesso avuto luogo attraverso la purificazione religiosa, la pulizia etnica, la riduzione della diversità. Negli Stati nazionali si sono propagate due malattie: la purificazione omologatrice, al loro interno, e la sacralizzazione delle loro frontiere esterne. Delimitazioni che si sono rivelate spesso inadeguate, contraddittorie e fonti di controversie. E ciò che ha maggiormente unito lo Stato nazionale al suo interno lo ha condotto in rotta di collisione con gli altri Stati, incubando l’idea dello “straniero”, del “nemico”: il senso di una comune appartenenza nazionale è spesso degenerato in un nazionalismo esasperato che ha scatenato una serie interminabile di conflitti, sfociati nelle due spaventose guerre mondiali».
C’è voluto il crollo di quell’Europa perché potesse affacciarsi l’idea di un superamento dello Stato-nazione.
«Nel 1945, invasa da angloamericani e sovietici, l’Europa era morta, schiacciata dalle proprie rovine. E morte erano le sue principali nazioni. Proprio allora emerse l’idea di un’entità politica nuova. Dalla volontà di affrontare le minacce antiche dei nazionalismi e quelle dei totalitarismi genocidari. Questa idea fu delineata da uomini politici – Schuman, De Gasperi, Adenauer su tutti - ben consapevoli di scrivere una nuova pagina nella storia. L’Unione Europea è nata e si è sviluppata proprio nel momento dell’ultimo, definitivo fallimento delle ambizioni europee di controllo del mondo. Scommettere, oggi, sul potere taumaturgico degli Stati nazionali significa sognare di tornare indietro. Certo, in un momento di crisi i cittadini hanno bisogno di comunità, di radici, ma non dobbiamo dimenticare che gli Stati nazionali europei hanno già fallito rovinosamente. I nazionalismi dei nostri giorni sono il colpo di coda di un mondo spaventato. È temerario e suicida auspicare l’irrigidimento delle nostre società aperte, il ritorno a sovranità nazionali anacronistiche di fronte ai problemi globali. L’euroscetticismo è un’opzione da sonnambuli. Il ritorno alla piena sovranità degli Stati nazionali è reso impossibile, se non in forme pericolose e regressive, dalla natura stessa dei problemi fondamentali del nostro tempo: energia, migrazioni, esplosione delle conoscenze, terrorismo, economia, incontrollabilità degli sviluppi tecnologici… I neonazionalisti guardano di fatto all’800, alla Belle époque. E fra di essi non ci sono solo i movimenti populisti europei: Russia, Cina, Giappone, e quella parte degli Stati Uniti che si riconosce in Donald Trump stanno alimentando pericolosamente questo clima».
La democrazia liberale, però, negli ultimi vent’anni non ha saputo promuovere le qualità e difendere gli interessi dei propri cittadini. Da Podemos ai gilet gialli, la gente è arrabbiata.
«C’è una polarizzazione sempre più acuta fra il potere, da una parte, e individui incerti e tormentati dall’altra. C’è un bisogno di partecipazione che fuoriesce dai quadri tradizionali della democrazia rappresentativa, e che rischia di trovare una scorciatoia: quella del leader carismatico. Ma per rispondere alla crisi della democrazia nei singoli Stati bisogna osare più democrazia nelle istituzioni sovranazionali, in particolare nell’Unione Europea. Perseguire una maggiore giustizia sociale, per proteggere gli individui dai contraccolpi di un’economia senza freni».
L’Europa oggi è vista come una tecnocrazia, non democratica, dominata da un’economia transnazionale dagli appetiti sregolati.
«La politica, senza visione e con sempre meno potere, ha abdicato a favore degli esperti. Oltre a essere subordinata a un’economia che le sfugge e la domina, alimenta una burocrazia che irrigidisce il corpo sociale e mortifica le giuste ambizioni degli individui. L’autoreferenzialità riduce i politici a una casta non più sottoposta al gioco democratico, se non in occasione di elezioni che diventano un rituale di autolegittimazione invece che un libero confronto di progetti per il futuro. Mai come oggi la politica seleziona una classe dirigente senza visione, senza cultura, senza consapevolezza».
Cosa serve, per cambiare rotta?
«L’Unione Europea deve portare a compimento il suo lungo e tentennante processo di unificazione politica. Deve rigenerarsi in una federazione di Stati nazionali, che è una forma istituzionale del tutto inedita e innovativa. È una metamorfosi necessaria se l’Europa non vuole condannarsi all’irrilevanza. E condannare all’irrilevanza i suoi singoli Stati. La nostra Europa è nata da un progetto inedito. Il suo scopo è stata la pace, che pareva impossibile. E ciò è stato realizzato. Poi lo straordinario successo economico ha messo in sordina il progetto politico e ha nascosto il suo progressivo degrado. Ma l’Europa o è una civiltà, sostenuta da un progetto politico, o si autodistrugge. L’Europa torna nuovamente, e drammaticamente, a essere improbabile. Tuttavia, o sarà l’Europa dell’unità nella diversità e della diversità nell’unità o l’Europa non sarà. E solo l’Europa una e molteplice, l’Europa della pace e dei diritti umani, provincia e non più centro del mondo, potrà essere laboratorio di cultura e di valori per la comunità di destino planetaria».
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