Cronaca / Bergamo Città
Venerdì 13 Dicembre 2024
Cerea: «Mai venduto quadri per Caleffi. Quelle operazioni erano tutte simulate»
IL PROCESSO. Parla per 6 ore il finanziere accusato di truffe per 100 milioni alla cognata di Gori. E rivela che propose il progetto di un museo a Casa Suardi. Ma Rodeschini: «Non andò così».
«Non sono il mercante che va in giro a tirare sòle alla signora Maria, sono un finanziere». Dentro un gessato di alta sartoria e dietro un eloquio sciolto e a tratti irritato, ecco Gianfranco Cerea, 63 anni, l’uomo d’affari di Bergamo che ebbe un ruolo in alcune scalate della Banca Popolare di Lodi e a quella al Credito Bergamasco e che ora, dopo una condanna definitiva a 3 anni per false dichiarazione nella voluntary disclosure, è a processo per rispondere di truffa aggravata e tentata estorsione nei confronti di Cristina Caleffi, 61 anni, cognata dell’ex sindaco Gori, che - sono le contestazioni - gli avrebbe affidato 130 milioni da investire anche in opere d’arte, ritrovandosi con cento milioni in meno.
Cerea in tribunale ha parlato per 6 ore
Nell’udienza di giovedì Cerea ha parlato per più di sei ore, rimbalzando da complicati meccanismi finanziari a giudizi su opere artistiche, di cui - ha rivendicato - è uno dei maggiori collezionisti a livello internazionale. Ma, soprattutto, ha rispedito al mittente le accuse. «Io dal 2005 al 2015 non ho venduto alcuna opera d’arte». Ha spiegato che lui, con studio a Lugano dal 1989 al 2018, era consulente di una fiduciaria svizzera che curava gli interessi di Cristina Caleffi.
E che le operazioni antecedenti al 2015 erano il frutto del contratto tra la signora e la società elvetica. Ha ricordato di averle venduto di persona opere per 11 milioni, «perdendoci un milioncino», nel 2015. E prima del 2015? «Sono tutte operazioni simulate, attività che la società svizzera ha fatto con la signora Caleffi. Ma non c’è un’opera d’arte», ha dichiarato Cerea. Dunque, quadri, statue, porcellane e altro, stando al finanziere, risultavano solo sulla carta, al fine di «costituire fondi neri». Per dare «credibilità e veridicità, in caso di controlli, ai movimenti in entrata e uscita del denaro», la società elvetica aveva «implementato un servizio particolare: operazioni simulate che avevano come oggetto la compravendita di opere d’arte, lingotti d’oro, diamanti». «Non so perché c’era la volontà di creare fondi neri, il rapporto era tra la signora Caleffi e la società. E non so neppure che fine abbiano fatto quei fondi neri».
«Come fa a dire che sono vendite simulate per creare fondi neri?», gli ha chiesto il giudice Alice Ruggeri. Cerea: «Sono deduzioni». Da Giacomo Lunghini, legale di parte civile per Cristina Caleffi, è giunta una domanda insidiosa: «Perché risultano accreditati sul suo conto 4 milioni se dice di non essersi occupato di quelle operazioni?». Cerea: «Perché queste operazioni delicate rimanessero riservate, uno dei consulenti della signora Caleffi spinse perché mettessi a disposizione il mio conto corrente. Che era gestito dall’amministratore della fiduciaria, il quale faceva quel che riteneva di fare. Sapeva muoversi in questo mondo opaco e movimentava fondi nel modo che riteneva più opportuno. Non so poi che cosa abbia fatto lui dei 4 milioni. L’importante è che non sparissero i miei soldi».
Le udienze precedenti
Dalle scorse udienze, e dopo la deposizione della 61enne, era emersa la figura di una Caleffi sprovveduta come investitrice nel mondo dell’arte e, in quanto tale, è l’accusa, facilmente abbindolabile da un esperto come Cerea, di cui la donna si fidava ciecamente. L’imputato ha invece rimarcato come Caleffi si muovesse con propri consulenti e che «non era ipnotizzata dal Cerea, come è stato dipinto».
Per colpa dei voltafaccia della donna, ha confidato il 63enne, fece brutta figura con una banca, «che rappresentava il salotto buono di Torino, frequentato da Montezemolo e De Benedetti».
Tra le contestazioni, la sproporzione tra quote societarie
In una società Cerea risultava al 51% con 10mila euro di capitale, mentre Caleffi per acquistare il 49% sborsò 50 milioni. «Al posto della signora lei avrebbe fatto lo stesso?», gli ha domandato il pm Emma Vittorio. «Dopo un’attenta analisi, come ha fatto Caleffi, l’avrei fatto. Per l’operazione avevo altri imprenditori interessatissimi». La società era proprietaria di un terreno ad Abbiategrasso, dove «Berlusconi voleva costruire la Standa».
Il progetto di un museo in Piazza Vecchia
Cerea ha anche rivelato del progetto di un museo in Piazza Vecchia, dove esporre la sua collezione. «Me lo propose la casa d’aste internazionale Sotheby’s. che però voleva Londra, New York o Dubai. Io invece optai per Bergamo perché è la mia città». Erano i tempi della Giunta Tentorio e il finanziere s’incontrò con l’assessore alla Cultura Claudia Sartirani e l’allora direttrice della Carrara Maria Cristina Rodeschini.
«Il gruppo Sif (riconducibile all’imputato, secondo il pm, ndr) voleva acquistare Casa Suardi che all’epoca era in vendita». Lì, secondo i piani di Cerea, sarebbe stata allestita la sua collezione. Tranne il «Bacio» di Hayez (il 63enne è titolare di una delle 4 copie esistenti al mondo) che, essendo di forte richiamo, sarebbe stato sistemato da solo al Teatro Sociale. «Io mettevo 80-90 milioni e alla fine avrei ricavato 6 milioni. Sono un collezionista filantropo. Ma la dottoressa Rodeschini, intuito che in questo modo la Carrara avrebbe chiuso baracca e burattini, con una scelta miope consigliò di non fare nulla».
«Mi ricordo - ricostruisce Rodeschini, sentita giovedì sera dal nostro giornale - che il dottor Cerea chiedeva al Comune il Palazzo della Ragione e non Casa Suardi. Lo voleva gratis per esporre la sua collezione e pretendeva di tenersi gli incassi. Diceva che Città Alta avrebbe avuto un ritorno di immagine. Ma il Comune non ci ricavava nulla e, per di più, sulla provenienza delle opere non fu chiaro, diceva che erano conservate in depositi all’estero. Allora io all’assessore sconsigliai l’operazione».
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