Alberghi in città: uno su 2 non apre
Persi 15 milioni durante la pandemia

Camere vuote e tante strutture chiuse. Gli albergatori: «Impossibile fare previsioni, viviamo alla giornata».

Un hotel su due in città è chiuso, chi resiste ha le camere pressoché vuote da mesi; qualcuno ha affittato l’ultima addirittura lo scorso febbraio. La situazione è drammatica e le prospettive, se possibile, ancora peggiori: la ripresa ancora non si vede e l’unica certezza, per gli albergatori, è che anche questo 2021 sarà un anno disastroso. Gli effetti della crisi già si vedono: tre alberghi storici della nostra provincia, il Milano di Castione, l’Adler di Foppolo e il Moderno di Lovere sono finiti all’asta e neanche a Bergamo, dove pure ne sorgeranno di nuovi nei prossimi 2-3 anni (oltre alla ristrutturazione in programma dell’Hotel Commercio di via Tasso), la situazione è migliore.

Perso l’80% del fatturato

Nel 2020 il settore alberghiero ha lasciato sul terreno circa l’80% del fatturato e le 23 strutture presenti in città non hanno fatto eccezione: la stima delle perdite secondo Ascom Confcommercio, basata sul numero di camere e la drastica riduzione di fatturato, è di 15 milioni di euro. Oggi sopravvive solo chi ospita medici, personale della Protezione civile e persone che si muovono per motivi di salute, «agli altri – spiega Giovanni Zambonelli, presidente di Ascom Confesercenti Bergamo, e titolare dell’Hotel Cappello d’Oro – conviene invece tenere chiuso». E la situazione, considerata la crescita dei contagi, è destinata a durare ben oltre la primavera: «O si entra nell’ottica che con il Covid si può convivere – dice Zambonelli – o nessuno sa quando ne usciremo. Non si capisce perché il commercio debba essere così penalizzato. Serve forse più responsabilità da parte dei commerciati, ma ci vogliono anche più controlli e un inasprimento delle sanzioni: chi rispetta le regole ha diritto di lavorare».

Sussidi col contagocce

I sussidi si vedono con il contagocce, ma gli albergatori più che un aiuto economico al Governo chiedono di poter tornare a lavorare: «Abbiamo dovuto investire in dispositivi per la sicurezza e spendere per costi di gestione più alti rispetto al passato – dice ancora Zambonelli –. Dopo l’epidemia, i ristori si trasformeranno in tasse, mentre noi abbiamo solo bisogno di riprendere in mano le nostre attività».

Gennaio e febbraio sono tradizionalmente i mesi più calmi dell’anno, oggi però ci si arriva dopo quasi un anno di fermo: «Gli alberghi non hanno mai lavorato – conferma Petronilla Frosio, titolare del Petronilla Hotel –. L’anno scorso, già a metà gennaio avevamo capito che tirava un’aria storta. E il giorno in cui l’epidemia è esplosa ad Alzano Lombardo si è azzerato tutto. Si era rivista un po’ di luce a metà settembre, poi ad ottobre è di nuovo tutto finito». Il settore alberghiero è penalizzato forse più della ristorazione, che pure a singhiozzo e con l’asporto, almeno un po’ riesce a lavorare. Il personale degli alberghi chiusi da mesi è in cassa integrazione, mentre i contratti a tempo determinato non sono stati rinnovati. «Anche il 2021 sarà un anno nero – conclude Petronilla Frosio – perché dopo l’emergenza sanitaria, bisognerà fare i conti con la crisi economica. Forse a Pasqua i ristoranti torneranno a lavorare, ma per gli alberghi non se ne parlerà nemmeno. E un albergo fermo si deteriora: ci sono costi altissimi, non sono ripagati».

«Viviamo alla giornata»

Alessandro Capozzi, vicepresidente degli albergatori di Ascom e titolare dell’Hotel Città dei Mille, è tra coloro che provano a resistere, «ma – dice – stiamo lavorando con numeri che non giustificano l’apertura. Un albergo può stare in piedi con il 65% delle camere occupate, sempre che non abbia debiti pregressi. Ora siamo al 20% e i prezzi di mercato si sono abbassati in modo drastico. I ristori arrivati sono come un secchio d’acqua in un incendio». Nelle poche camere affittate risiedono perlopiù persone che viaggiano per lavoro o per salute: «Chi arriva, in questi mesi, ha anche il problema di trovare un posto dove pranzare o cenare», puntualizza Capozzi. Solo la metà degli hotel presenti in città (11 su 23) dispone di un ristorante interno, che può lavorare solo per gli ospiti dell’albergo. «In più non possiamo ridurre il personale – dice ancora Capozzi –. Dovremmo essere più sostenuti nelle aperture e alleggeriti dei costi. Oggi non riusciamo a fare previsioni, si vive alla giornata e i pochi clienti che arrivano, lo fanno senza prenotare. Siamo abbandonati a noi stessi».

In Città alta il GombitHotel, uno dei 6 presenti nel centro storico, non ha più riaperto dall’inizio della pandemia, «ma noi continuiamo a crederci – dice il titolare, Ferruccio Locatelli –. Siamo uno dei pochi presidi rimasti in Città alta (dove ha chiuso il Relais San Lorenzo, unico 5 stelle di Bergamo, ndr). Abbiamo un’attività che lavora col turismo, anche legato al business, che con lo smart working si è drasticamente ridotto. Ma le nostre strutture non sono adatte per essere reinventate. Bisogna avere pazienza; nella prima fase dell’epidemia abbiamo riammodernato tutto l’hotel; se ci arrendiamo anche noi, Città alta rischia di impoverirsi ulteriormente. A noi costa tanto, speriamo solo che qualcuno si ricordi degli sforzi che stiamo facendo».

© RIPRODUZIONE RISERVATA