Cronaca / Bergamo Città
Giovedì 02 Aprile 2020
«Al pronto soccorso fra ansie e paure»
La storia di Aurora: c’era un esercito di eroi
Aurora Minetti, 47 anni, di Bergamo racconta le sue 48 ore in ospedale: «Nonostante il caos, tutto era perfettamente coordinato. Fuorché lacrime e pianti».
Quarantotto ore, «Forse le più lunghe della mia vita». Parla a fatica in questi giorni, Aurora. Occhi stanchi ma sorriso aperto, quasi non si nota la cannula nasale che l’aiuta a respirare. «Sono una delle tantissime persone seguite quotidianamente a domicilio da un medico del pronto soccorso, che in continuità con il percorso precedente, monitora costantemente l’evoluzione della malattia, indirizzandomi di volta in volta».
Mai avrebbe pensato, Aurora Minetti, che nella sua vita sprint fatta di lavoro nelle aziende di famiglia - l’Ostificio Prealpino, Puntogel e Domogel – e di impegno appassionato all’interno dell’Associazione Cure palliative Onlus fondata dal papà Arnaldo e da sua moglie Kika nel 1989 oltre che nel direttivo dei Lions Bergamo Host, mai avrebbe immaginato che in questa vita si potesse infiltrare un nemico tanto subdolo come il coronavirus. A 47 anni. Invece.
«Al pronto soccorso del Papa Giovanni XXIII sono stata 48 ore» racconta da casa dove è stata fatta tornare dai medici. Ascoltare la sua testimonianza fa entrare in un film, il film dei nostri giorni, fatto di preoccupazioni ma anche di tanta speranza. Un racconto preciso, il suo, che non cede alla paura perché «là dentro ho visto un esercito di persone speciali. Il viavai di medici e infermieri è incredibile: corrono, si sfiorano, percorrendo corsie invisibili dalle traiettorie comunque certe. Automi perfettamente coordinati e impacchettati in divise e mascherine strette nella speranza di non essere contagiati per poter essere e rimanere esattamente dove sono. Lì, a salvare vite».
Minetti, un compagno e tre figli di 18, 16 e 12 anni, una laurea in sociologia e un dottorato di ricerca in scienze della comunicazione, ora è a casa e si dice «in ripresa, nonostante il fiato sempre corto. Ci provo. Tanta fatica, ma altrettanta voglia di vivere».
Tutto inizia sabato, intorno alle 20,30. «Il respiro si fa sempre più pesante. Anzi, non respiro – ricorda -. Sento Roberto (Labianca, oncologo e palliativista, ndr), il riferimento di sempre. Quello con cui ho condiviso ben oltre la metà della mia vita, per obiettivi e sogni. L’Hospice. Le cure palliative. Il dottorato. Gli anni di ricerca. Il numero riportato dal saturimetro proprio non gli piace. Attiva il contatto, che verifica i parametri. Non vanno bene neanche a lui. Bisogna andare immediatamente in ospedale. Cerco di contenere la paura, anche solo per non appesantire l’affanno. Ci riesco». Intanto si prepara il minimo indispensabile, «costringendo tutte le lacrime che poi condivideremo una volta ritornata a casa. Si parte. Tornerò? Rivedrò i ragazzi? Papà? E mamma? Chi lo dice a mamma?». Parte e «da lì a mezz’ora mi ritroverò catapultata in un altro mondo. Una volta arrivati, ad accogliermi, troviamo un operatore che con la prontezza di chi ne ha certamente viste tante, circoscrive in un battito di ciglia la mia condizione, instradandola entro una via che da lì a pochi minuti si profilerà essere quella destinata ai Covid. La porta gialla si apre. Sono in guerra. Da sola».
Il suo racconto prosegue descrivendo uno stato di profonda debolezza: «Mi guardo attorno, anche solo per capire dove stare. Non ho le forze. Trovo sollievo appoggiata ad un muro. Le gambe sono così molli da non sentirle. Proprio come i rumori. O i sapori e gli odori, ormai azzerati da giorni. Tutto è pazzescamente attutito. Proprio come quando fuori nevica e il mondo sembra fermarsi».
Nel frattempo «le orecchie mi esplodono. La testa anche. Il fiato manca. E i pensieri vengono schiacciati dalle immagini». L’infermiera che la chiama e la fa distendere su un lettino, poi il nulla. «So solo che mi sono ritrovata con una flebo e il dono dell’aria, miracolosamente contenuta entro una gigantesca bombola bianca appoggiata proprio a fianco del mio lettino. E rimarrò così, impilata per ore lungo un corridoio assieme a tante altre persone di ogni genere, età, persone più o meno spaventate, più o meno in affanno, ma tutte sofferenti». Una condizione comune, un caos da cui emerge un paradosso: «In quel caos, tutto era perfettamente e incredibilmente coordinato, sempre. Fuorché i pianti. Le lacrime. O anche solo le richieste di aiuto». Le parole di Aurora si materializzano in una sequenza da film: «In quel dove ho visto transitare lungo quei corridoi vite, correre medici, infermieri, tentare l’impossibile e riuscirci anche, ma non sempre. Ho udito donne e uomini piangere, gridare e implorare aiuto. Lì ho visto la morte passarmi accanto. Io stessa ho avuto paura. Ma non ho mai visto sul viso di nessun operatore anche solo per un attimo l’espressione di chi avrebbe potuto mollare. Mai. Loro, in quel caos, c’erano sempre. Ogni movimento era così fermo dal consegnarci comunque la sensazione di potercela fare. Anche quando le condizioni sembravano diverse».
Così è stato e Aurora si dice «per sempre grata al Papa Giovanni XXIII, se non altro per quell’impagabile cuore e professionalità dimostrata da ogni suo professionista. Un modello virtuoso per organizzazione e accoglienza che mai dovremmo dimenticare. Anche quando tutto questo sarà finito. Perché ciò che pensavamo essere normale, da oggi non dovrà più esserlo. Per non ripetere. Per non dimenticare. E per essere certamente migliori di quanto noi si credesse di essere».
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