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Cronaca / Bergamo Città
Lunedì 13 Gennaio 2025
Al lavoro a piedi con fatica, le strade invisibili, chi è rimasto a casa. Le vostre storie della grande nevicata - Le foto
LE TESTIMONIANZE. I nostri lettori hanno risposto alla nostra richiesta: mandare testimonianze e ricordi sulla grande nevicata di 40 anni fa.
Mail, messaggi in Instagram e su Facebook. Tantissime lettere e i commenti online che hanno permesso a L’Eco di Bergamo, nella sua edizione cartacea e online, di ricostruire quei giorni così speciali. Ecco alcuni dei messaggi arrivati.
Gigi Andreini: «Ad Alzano il tetto del palazzetto crollò: salvai i ragazzi non facendoli entrare»
«Sono l’ex custode del Palazzetto dello Sport di Alzano: il tetto crollò a seguito della grande nevicata verificatasi in quei giorni di gennaio del 1985. Mi ricordo che per 4 giorni spalai ogni giorno 20-25 cm di neve dovendo fare un passaggio per gli atleti che dal cortile arrivava all’entrata degli spogliatoi della palestra. Accumulavo la neve e praticamente avevo formato una specie di trincea alta quasi un metro ma il mio ricordo mi porta a quei ragazzi e ragazze che quel giorno dovevano entrare in palestra per seguire i corsi del Centro avviamento allo sport. Io, con la scusa della neve, non li lasciai entrare dicendo: “Oggi fate ginnastica in cortile, giocate con le palle di neve”. Giocai anche io con loro: visto che io continuavo a spalare la neve, li avvisai di tornare a casa. Penso di averli salvati dal crollo del tetto: ancora oggi che sono adulti quando ci incontriamo mi ringraziano e anche dalla amministrazione comunale ricevetti parole di elogio. Ho cercato solo di fare al meglio il mio lavoro e credo di essere stato fortunato nel prendere quella decisione, ma ancora oggi mi chiamano “Gigi Palazzetto”».
Adriano Rosa: «Mio figlio, nato con la neve»
«4 o 5 gennaio 1985, una vita fa, un inverno gelido. Venivo dimesso dagli Ospedali Riuniti dopo circa 20 giorni di degenza. Avevo passato Natale e Capodanno, ricoverato per qualcosa che non capii e non avrei mai capito. Infatti mi ritrovai improvvisamente, una decina di giorni prima di Natale, con i linfonodi, posti fra collo e spalla, grossi come palle da tennis, ma era da molto tempo che sentivo che qualcosa non andava. La sera, dopo molte pressioni da parte di mia moglie, mi recai con lei al pronto soccorso del vecchio Ospedale di Bergamo. Lei con un pancione enorme: era incinta, aspettava a breve il nostro primo e unico figlio. Insomma, al pronto soccorso non appena mi videro, dopo un sommario esame, richiesero subito il ricovero immediato.Vedendo la mia reticenza (non avevo portato nulla con me, se non il pancione della moglie), mi dissero subito brutalmente che mostravo i sintomi di una possibile leucemia. Moglie e pancione per poco non svennero... io invece chiesi semplicemente “Non posso tornare domani ?”... al che il medico si rassegnò, dato che ai matti aveva fatto l’abitudine, meglio non contraddirli. Ce ne tornammo a casa, preparai qualche cosa, e il mattino dopo mi recai in ospedale. Fu così che trascorsi indimenticabili vacanze di Natale... in compagnia anche di un enorme strumento elettronico accanto al letto che Walter, un solerte collega di lavoro, si era incaricato di portarmi in ospedale:una valigia di programmazione Siemens: dovevo finire urgentemente un programma di una macchina a Controllo Numerico. Potevo morire, ma la vita, soprattutto per gli altri, continuava...».
«Penso che sia l’unico programma scritto su un letto di un ospedale da un paziente convinto di morire di lì a poco... chissà se il programma è ancora vivo e funzionante. Io vivo lo sono ancora, nonostante abbia ormai ampiamente doppiato gli anni che avevo in quei giorni, funzionante, sempre di meno. Su mia richiesta, mi lasciarono temporaneamente uscire il giorno di Santo Stefano, trascorsi con mia moglie la giornata, un paio d’ore al cinema Rubini a vedere il film “Bambi” (e giù altre lacrime)... poi la sera rientrai. Fuori imperversava l’inverno più gelido che ricordi... era commovente vedere mia moglie venire a visitarmi in bus ogni giorno, nonostante il pancione e il freddo polare («magari nasce quando sono già qua» diceva)».
«Passarono i giorni, esami su esami, senza sapere che cavolo avessi. Io, pessimista di natura, ero convinto di stare vivendo le ultime settimane della mia vita, ma ero stranamente rassegnato e sereno, l’unica cosa che mi importasse veramente era vedere nascere mio figlio, che evidentemente non ne voleva sapere di accontentarmi. Ruffiano come sono, mi ero fatto amico del frate dalla lunghissima barba che visitava i malati, non ne ricordo il nome, ma era molto popolare fra le corsie... insomma, non si sa mai, vai a vedere che una confessione qui, una benedizione là, mi avrebbero aperto le porte di qualcosa a cui in quel momento volevo credere. Arrivò l’anno nuovo, mio figlio proprio non ne voleva sapere di nascere, e, finalmente, si decisero a farmi una biopsia... ricordo ancora il percorso lungo il quale mi trasportarono su una barella a rotelle, in tunnel che passavano sotto il complesso dell’ospedale e dei quali ignoravo l’esistenza».
«L’intervento fu eseguito da un giovane medico chirurgo che conoscevo bene...aveva frequentato lo stesso mio oratorio: incredibile il numero di persone conosciute che si possono incontrare in un ospedale. Dopo qualche giorno mi dimisero.. non avevo nulla di grave, solo un’infezione atipica o aspecifica...non ricordo esattamente il termine».
«Pochi giorni dopo, il 15 gennaio 1985, durante la più grande nevicata del secolo, alle cinque del mattino, mio figlio decise che ne aveva già avuto abbastanza d’aspettare, o, forse, voleva appunto semplicemente godersi la prima grande nevicata della sua vita. Chiamai mio cognato, l’unico dei famigliari che aveva a disposizione un’auto con catene da neve e portammo Antonella nello stesso ospedale dal quale ero da poco uscito. Alle tredici nacque Marco, sotto le mani di un ginecologo con lo stesso nome, per anni mio compagno nella squadra di calcio. Intanto fuori infuriava la tormenta, che durò tre giorni: le auto scomparvero sotto un metro di neve, obbligando molti medici e infermieri a trascorrere le notti in ospedale. In quel vecchio Ospedale che ora non c’è più».
«Fu un giorno indimenticabile, mai avrei potuto immaginare che, un altro gennaio e un’altra giornata di neve, pur meno intensa, quasi esattamente venti anni più tardi, il 18 gennaio 2005, si sarebbero portati via mio papà. Lo posso proprio dire: “Mio figlio è nato con la neve”».
Marilena Pizzi: «In Città Alta con gli sci»
«Di quella nevicata ho un ricordo indelebile e magico. La sera io e il mio ragazzo siamo saliti con i doposcì in Città Alta: non c’era una macchina, non c’era anima viva e all’improvviso sulla strada totalmente opera di neve arrivano due ragazzi che con gli sci stavano scendendo verso Città Bassa. Veramente surreale!».
Umberto Gamba: «L’euforia della scuola e quell’ombrello nella neve»
«Nel 1985 frequentavo l’ultimo anno dell’Esperia. Eravamo rientrati a scuola da pochi giorni e ogni mattina infreddoliti, prendevamo nota della temperatura, che pareva non finisse mai di diminuire. Ogni giorno toccava un record negativo. Poi iniziò a nevicare. La mattina del 14 gennaio il bus delle 7.15 da Ubiale arrivò in città intorno alle 11. Nevicava che era uno spettacolo. Giunto a scuola mi fecero ritornare a casa e mi dissero che le lezioni erano sospese fino a nuove disposizioni. La notizia delle vacanze suppletive creò una certa euforia tra noi studenti, che già ci immaginavamo a sciare lungo i pendii innevati dei nostri paesi».
«Non ricordo quanti giorni durò la nevicata, so che restammo a casa ancora per un po’ e, abbandonati sci e slittino, ci dedicammo a liberare strade e cortili dalla neve»
«La neve continuava a scendere a larghi fiocchi e lo spessore del manto aumentava a vista d’occhio. Non ricordo quanti giorni durò la nevicata, so che restammo a casa ancora per un po’ e, abbandonati sci e slittino, ci dedicammo a liberare strade e cortili dalla neve. Poi toccò ai tetti e di conseguenza dovemmo ricominciare da capo. Un lavoraccio. Per la prima volta vidi impiegata una ruspa per raccogliere la neve accatastata lungo le strade e gettarla nei prati, nei canali, ovunque vi fosse un poco di spazio. Nei giorni seguenti per vedere la nevicata fuori dal centro abitato decisi di salire sul monte Ubione ma dovetti rinunciare perchè la neve era così alta che era impossibile proseguire il cammino.
La grande nevicata del 1985
Le foto della grande nevicata che nel gennaio del 1985 che paralizzò Bergamo e tutta la provincia.
«Ho una sola fotografia di quelle giornate indimenticabili, impegnative e anche magiche e un ricordo “materiale”: il giorno che chiusero la scuola, mentre tornavo verso la stazione, vidi tra la neve un ombrellino e lo raccolsi. Lo conservo in ufficio e ancora oggi, sebbene un po’ arrangiato, svolge egregiamente la sua funzione».
Lucy: «Grazie alla neve la famiglia riunita»
«Nel gennaio 1985 avevo sei anni e mezzo. Abito a Brignano Gera d’Adda e mi ricordo benissimo quel giorno di gennaio in cui la neve era talmente tanta che non sono andata a scuola. Mi sembrava di essere in una fiaba. Io e il mio papà siamo usciti tutti vestiti da neve e abbiamo camminato fino al centro del paese con gli stivali da neve.. Io affondavo i miei piedini tutta felice, mai visto il mio paesello così imbiancato. Sembrava che il tempo si fosse fermato. Un gran silenzio e qualche voce di papà con la pala da neve in mano. Ricordo quel giorno con grande emozione.. La nevicata aveva costretto tutti a casa: la famiglia riunita, una lenta e splendida giornata. Ho fatto il mio primo pupazzo di neve nel giardino di casa, con carota per il naso e bottoni per gli occhi. Una meraviglia».
«Sembrava che il tempo si fosse fermato. Un gran silenzio e qualche voce di papà con la pala da neve in mano. Ricordo quel giorno con grande emozione»
«Mia figlia Paola, nata sotto la neve»
«La mitica nevicata mi fa tornare alla mente che mia moglie era agli ultimi giorni di gestazione : è nata Paola. La neve era davvero tanta, noi uomini salimmo sul tetto delle abitazioni a spalare la neve, le nostre mogli ci passavano delle tisane calde per lenire il freddo. A mia moglie con il suo grande pancione, in giardino avevo, nella immensa neve, ricavato un seggiolone, per riempire i suoi occhi del panorama, affinchè potesse diventare un ricordoanche della nostra figlia che stava arrivando. Sono passati 40 anni: ci sono ancora, e spero che mia figlia, nata sotto la neve, possa avere la comprensione di un padre nostalgico, ora vecchio e bacucco».
«La neve era davvero tanta, noi uomini salimmo sul tetto delle abitazioni a spalare la neve, le nostre mogli ci passavano delle tisane calde per lenire il freddo»
Maria: «Tutti a piedi a cercare il pane»
«Io all’epoca avevo 20 anni e me la ricordo benissimo quella nevicata: per me è stata una cosa fantastica, da favola. Spalavo neve a casa mia, altrimenti non si riusciva più nemmeno ad uscire ma è stato fantastico. Tutto chiuso: la gente in giro a piedi a cercare il forno che distribuiva ancora il pane, uno in tutto il paese tra l’altro. Si giocava a palle di neve nonostante non fossimo esattamente bambini. Sono stata così bene, vorrei che si ripetesse».
Giorgio Magri: «L’odissea di andare al lavoro in auto»
«A Grone dove vivo il ricordo più forte che ho è che non ci saremmo mai aspettati un evento così importante. Mia moglie lavorava all’ospedale di Trescore Balneario e per potercisi recare al primo turno delle 6 avrebbe dovuto estrarre l’auto dalla neve che l’aveva coperta completamente. Per evitarle una tale fatica, decidemmo che l’avrei accompagnata con la mia auto. Cominciai a spalare neve alle 4 del mattino e dopo un’ora e mezza terminai il passaggio che da casa mi dava la possibilità di arrivare alla carreggiata della strada che portava alla statale 42. La neve cadeva a grandi falde e in pochi minuti lo strato bianco si era già rifatto. Montai le catene e cominciammo a scendere la discesa che porta alla strada a passo d’uomo. Sulla strada statale circolavano enormi pale meccaniche che tentavano di tenere pulito ma, col passare delle ore, la neve pressata diventava ghiaccio. Ricordo che le buche nel ghiaccio erano profonde e l’auto sbatteva sul fondo continuamente ma, piano piano, arrivammo all’ospedale e mia moglie potè iniziare il turno e dare il cambio ai colleghi. Quando anch’io arrivai al posto di lavoro controllai il fondo dell’auto e notai che in qualche punto era sfondato. L’auto era abbastanza vecchia e dopo poco tempo dovetti sostituirla. E’ stata un’esperienza che non dimenticherò mai».
«Sulla strada statale circolavano enormi pale meccaniche che tentavano di tenere pulito ma, col passare delle ore, la neve pressata diventava ghiaccio. Ricordo che le buche nel ghiaccio erano profonde e l’auto sbatteva sul fondo continuamente»
Giuseppe Quaglia: «Supermercati senza merce e bus abbandonati in strada»
«Non smetteva più di nevicare: neanche da bambino si vedevano nevicate simili. Allora abitavo in via Carnovali e lavoravo al Supermercato GS di Borgo Palazzo: il ricordo di allora è che la tanta neve diventava in parte ghiacciata. Per due giorni sono andato al lavoro a piedi con tanta fatica per la paura di cadere: i pochi mezzi in circolazione compresi i bus qualcuno non attrezzato era abbandonato ai bordi della strada. Ricordo che per la bassissima temperatura raggiunta si ghiacciava il gasolio nei serbatoi dei mezzi per il trasporto delle merci, lasciando il supermercato sprovvisto di tanta merce. Le ruspe raccoglievano la tanta neve e la portavano in vari punti della città, uno dei tanti era via Carducci zona Città Mercato e Motorizzazione. La neve è poi rimasta per parecchi mesi lì, prima di sciogliersi. Sulla strada delle Valli di allora erano entrati in funzione i carri armati dell’esercito per liberare la strada».
«Le ruspe raccoglievano la tanta neve e la portavano in vari punti della città, uno dei tanti era via Carducci zona Città Mercato e Motorizzazione. La neve è poi rimasta per parecchi mesi lì, prima di sciogliersi»
Maria Pia: «Il ricordo della strada verso scuola, a piedi con le compagne»
«Allora abitavo ad Osio Sotto e frequentavo la scuola per “Segreteria d’azienda” a Dalmine. Quella mattina le strade erano impraticabili e allora con altre compagne, provenienti dallo stesso paese, ci siamo incamminate e piano piano siamo arrivate a destinazione: non ci è nemmeno passato per la testa il pensiero di ritornare a casa. Fatica sicuramente sì, ma il ricordo che mi è rimasto è dolce: il silenzio, la pace, e le nostre risate passando vicine allo stabilimento “Dalmine” di Sabbio praticamente circondate da una montagna di neve. Il ritorno? In pullman: le strade erano nel frattempo già state rese agibili».
Roberto Pozzoni: «La strada non si vedeva: si seguivano i pali della luce»
«Nel gennaio di quell’anno lavoravo al Dispensario Antitubercolare di Bergamo, che aveva sedi distaccate in tutta la provincia. Io con il dottor Asperti coprivamo le sedi di Ponte San Pietro, Romano di Lombardia e Treviglio. Abitando io a Cisano Bergamasco, partivo alle 5 per poter essere a Romano o Treviglio in un orario decente, tra le 10 e le 10.30. Fatte le prestazioni alle persone, si ripartiva per Treviglio o viceversa: si arrivava per le 16 e ricordo che per Treviglio in mezzo ai campi la strada non si vedeva e si seguivano i pali della luce. Avevo montato le catene all’auto la domenica pomeriggio: le ho tolte una settimana dopo».
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