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Sabato 22 Dicembre 2018
Manovra, brutto
scherzo al non profit
Il mondo del non profit è uno dei fiori all’occhiello dell’Italia. Quante volte questa evidenza ha raccolto consensi trasversali tra i partiti. I numeri del resto parlano chiaro: nel nostro Paese gli enti attivi sono oltre 336 mila e complessivamente impiegano 5 milioni 529 mila volontari, secondo i dati Istat. La nostra provincia dà un contributo considerevole, con 3 mila associazioni e 100 mila volontari (quasi un abitante su dieci). Una presenza che spesso sopperisce alle carenze dello Stato, ma non solo: crea legami e senso di appartenenza a una comunità. È un valore enorme, non monetizzabile, in un’epoca di individualismi, solitudine e comunità disgregate. Un bene sociale che costruisce bene comune.
Un emendamento del governo gioca un brutto scherzo a questo settore: viene cancellato lo sconto del 50% sull’Ires (l’imposta sui redditi delle società, che raddoppierà dal 12 al 24%) a enti del non profit e, tra gli altri, gli istituti di assistenza sociale, le società di mutuo soccorso, gli enti ospedalieri, di assistenza e beneficenza, gli istituti di istruzione e di studio, i corpi scientifici, le accademie, le fondazioni e associazioni storiche, letterarie, scientifiche, gli enti ecclesiastici, gli Istituti autonomi per le case popolari. Le reazioni al provvedimento sono garbate ma decise: «Assurdo che dobbiamo essere proprio noi a pagare l’accordo con l’Europa. Un prezzo alto: da una prima stima, solo per il primo anno, il volontariato italiano andrà a versare 118 milioni di euro» è il commento della portavoce del Forum nazionale del Terzo settore, Claudia Fiaschi.
L’emendamento colpisce soggetti laici e religiosi. La cancellazione della mini-Ires «agli enti non commerciali», come li ha definiti il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, rientra tra i molti tagli introdotti per recuperare risorse a favore del Reddito di cittadinanza e Quota 100 alle pensioni senza incorrere nella procedura europea. «Siamo consapevoli delle difficoltà in cui versa il Paese - ha detto il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, monsignor Stefano Russo - come pure delle richieste puntuali della Commissione Europea. Nel contempo, vogliamo sperare che la volontà di realizzare alcuni obiettivi del programma di Governo non venga attuata con conseguenze che vanno a colpire fasce deboli della popolazione e settori strategici a cui è legata la stessa crescita economica, culturale e scientifica del Paese».
L’emendamento fa seguito ad un altro, firmato 5 Stelle, che porterà all’azzeramento complessivo del Fondo per il pluralismo nell’editoria, che nel 2017 ammontava a 50 milioni ed era già in costante calo. Ne beneficiano in particolare testate edite da cooperative di giornalisti o da fondazioni o enti morali, comunque senza scopo di lucro e con l’obbligo in statuto di non dividere eventuali utili. Non quindi i «giornaloni» che secondo la maggioranza governativa sono parte del deprecato establishment. A parte cinque quotidiani nazionali (il Foglio, il Manifesto, Avvenire, Italia Oggi e Libero), decine di quotidiani territoriali e un centinaio di testate non profit, di minoranza linguistiche, come quella slovena, settimanali e mensili di stampo cattolico, editi da diocesi e parrocchie. Si chiama Fondo per il pluralismo proprio perché permette a voci diverse di stare sul mercato. Con l’azzeramento del Fondo sono a rischio 10 mila posti di lavoro. Un danno al tessuto sociale del Paese, alla diffusione della conoscenza e di una coscienza civile da parte delle realtà non profit che non sono omologate rispetto al clima sociale del Paese. Quel non profit che riceve tante pacche sulle spalle. E qualche taglio a sorpresa.
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