Giro d’Europa per l’ultra maratoneta: «I miei duemila km a piedi fra orsi e concerti d’organo»

L’IMPRESA. L’ultra maratoneta Nori Bertola, 71 anni, da Arcene a Varsavia: «Che emozione ad Auschwitz. In Slovacchia mi sono perso nella foresta».

Leonorio Bertola – della serie: un bergamasco a Varsavia – racconta la città polacca dove l’Atalanta, la vigilia di Ferragosto, affronterà il Real Madrid nella finale di Supercoppa Europea: «In meno di un paio di giorni la si visita, una visita al museo di Chopin è obbligatoria. I voli costano troppo? Le alternative non mancano, potreste fare come me…». Cioè arrivarci a piedi. Partendo da Arcene, suo paese di residenza, in 52 giorni, percorrendo 1998 km distribuiti su 38mila metri di dislivello positivo. Se per l’italiano medio, le vacanze sono un in genere un’occasione di riposo e relax, il nonno-sprint della Bergamo Stars Atletica (quattro figli, sei nipoti, anno di nascita 1953) va da un bel pezzo in controtendenza. Con quella appena conclusa, siamo alla decima estate consecutiva caratterizzata da un’avventura into the wild: «Stavolta per tre quarti del cammino è piovuto – racconta Nori (come lo conoscono tutti) –. Lo zaino che avevo pesava più dei teorici 20 kg, una fatica in più».

Il giro d’Europa

Italia, Slovenia, Ungheria, Slovacchia, Polonia. Nel suo giro d’Europa (passando per colline e piste ciclopedonali) gli è capitato di vivere esperienze ed emozioni che non ci starebbero nemmeno in un libro. Un capitolo andrebbe scritto sul momento più bello: «Entrando nella chiesa di Santo Stefano a Budapest, a metà percorso: ho sentito un concerto organistico che mi ha sollevato spirito e gambe che iniziavano a cedere». Un altro su quello più forte a livello emotivo: «Al campo di concentramento di Auschwitz, dove ho consegnato due medaglie che mi erano state date dal sindaco del mio paese. Sono stato mittente anche di un asilo di Verona devoto alla Madonna Nera di Cracovia, che ho visitato». Un altro ancora sul più avventuroso in assoluto: «In Slovacchia mi sono perso nella foresta, e solo una volta rientrato nella civiltà ho capito che quelli che avevo incontrato poche ore prima erano degli orsi…».

«Semplicità, umiltà serenità»

I suoi sono stati giorni sempre uguali ma sempre diversi tra loro. Dodici ore (o su di lì) di cammino, con l’obiettivo di avvicinarsi alla meta trovando qualcosa da mangiare e un posto dove dormire: «Nei Paesi dell’Est accamparsi è vietato, quindi mi è capitato di alloggiare anche in caserme di carabinieri e vigili del fuoco. Una serata sono stato ospite in un ospizio: mi hanno ringraziato perché parlando di quello che stavo facendo, ho portato aria fresca e ricerca di senso…». Chi glielo fa fare (?), è stata la domanda che tanti gli hanno posto lungo un cammino che più francescano non si può: «La mia risposta è stata quella di mostrargli la credenziale, scritta in cinque lingue diverse. Le parole chiave di questo cammino sono state semplicità, umiltà, serenità. Tutti ricambiati perché in parecchi, quando ne ho avuto bisogno, mi hanno dato una mano». Ora cerca un assist per ritrovare due bergamaschi incrociati all’uscita di Auschwitz: «Lui di Bergamo, lei di Capizzone, ma non ricordo il nome...». Se sono atalantini, basterà attenderli lì a Varsavia.

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