Gimondi, dietro al campione spigoloso
c’era un uomo di gran sensibilità

Il ritratto di Felice privato, al di là della veste di gran professionista.

L’idea era venuta da don Mansueto Callioni, suo amico e tifoso, capace di scappare dal Seminario per andare ad applaudirlo quando il Giro d’Italia passava da queste parti: «Non è ora che si scriva un libro su Gimondi? E chi se non tu?». Più che un’idea era un’esortazione, che aveva trovato un terreno fertile su cui andarsi a posare, perché era da qualche tempo che ci stavamo pensando. Si decise, dunque, tutti e tre, di imbarcarci nell’impresa. Era il 2004. Nella primavera dell’anno successivo, grazie anche alla sensibilità dell’editore Roberto Vallardi, il libro vide la luce e fu presentato, per la prima volta, a Ravenna, nel giorno di riposo del Giro d’Italia.

La gestazione di quel «Felice Gimondi, storia di un uomo che ha saputo essere campione anche nella vita» fu più appassionante di quanto non avessimo immaginato. Ripercorrere, passo dopo passo, pedalata dopo pedalata, la formidabile carriera del grande campione era stato un po’ come rivivere, a distanza di tempo, le straordinarie emozioni che Felice aveva regalato a tutti noi negli anni bellissimi dei suoi trionfi: dal Tour al Giro d’Italia, dalla Sanremo al Lombardia, dalla Roubaix alla Vuelta. Fino al Mondiale di Barcellona che, sul piano emotivo, rimane ancor oggi il momento più alto: un’eruzione di incontenibile gioia vissuta nello spazio di pochi secondi, quelli della memorabile volata in cui aveva finalmente fatto mangiare la polvere a quel cannibale di Merckx. Il sigillo a una carriera strepitosa.

I ripetuti incontri – a casa sua in presenza della amatissima Tiziana, in redazione a L’Eco di Bergamo, negli uffici della Vallardi, in canonica con don Mansueto – oltre ad aiutarci a mettere insieme il mosaico, ci avevano offerto l’opportunità di conoscere e apprezzare un Gimondi dalla sensibilità per certi versi insospettata. Quando correva non era certo quello che si suole definire una pasta d’uomo. Al contrario era un atleta duro, spigoloso, persino un po’ rude, che in corsa non guardava in faccia a nessuno, amici o avversari che fossero. Ci sono immagini in cui lo si vede mulinare le braccia sgomitando per difendersi dalla calca dei tifosi che, animati dalla gioia di manifestargli il loro entusiasmo dopo un arrivo vittorioso, in realtà finivano per soffocarlo. Insomma, l’immagine che tutti avevamo del Gimondi corridore era di un uomo poco incline alle tenerezze.

In realtà, una volta sceso dalla bici, Felice non aveva altro pensiero se non di correre a casa per abbracciare la sua Tiziana e coccolarsi le bimbe. In occasione dei nostri incontri, più volte interrompeva la narrazione per parlare di questo argomento: «Mi raccomando, scrivi che io non finirò mai di serbare infinita gratitudine a Tiziana, dovessi campare cent’anni. Mi è stata fondamentale la sua vicinanza discreta, premurosa: è sempre rimasta dietro le quinte, mi ha lasciato le luci della ribalta, attendeva con pazienza i miei rientri dalle corse, dopo lontananze che talvolta duravano settimane. È stata il mio porto sicuro in cui approdavo, mi aiutava con la sua dolcezza a stemperare la delusione delle sconfitte e a ricaricarmi per le sfide successive. E ha fatto da mamma e papà a Norma e Federica, perché per ragioni di lavoro sono stato un papà assente negli anni della loro adolescenza. Spero, invecchiando, di avere il tempo di colmare in parte questa lacuna».

Analogo pensiero nei confronti dei compagni di squadra: «Ero un capitano duro, esigente, che in corsa pretendeva il massimo. E qualche volta mi è capitato di trattare in modo rude, spigoloso compagni che in realtà si facevano in quattro per aiutarmi. Ma le corse sono così, i tempi e la fatica rendono insensibili. Ora che siamo scesi tutti dalla bicicletta, vorrei far capire ai miei vecchi compagni di squadra quanto abbia apprezzato il loro spirito di sacrificio, la loro dedizione e quanta parte delle mie vittorie appartenga a loro. Scrivilo, scrivilo che gli voglio un sacco di bene. Ronchini, Pambianco, Parsani, Gualazzini, Houbrecht, Partesotti, Cavalcanti, Santambrogio e tanti altri sono stati veri e propri angelo custodi».

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