Unificare l’opposizione. Ma non c’è omogeneità e pesa l’incognita Renzi

ITALIA. Nuovo appuntamento elettorale, tre regioni al voto. Con molte probabilità il campo largo può fare filotto: tre a zero. Ma deve superare gli ostacoli interni.

Sulla sempre tormentata vicenda politica italiana incombe un nuovo appuntamento elettorale, sempre motivo di rinnovati tormenti. Sono tre le regioni che vanno in sequenza al voto: Liguria, Emilia-Romagna e Umbria. Ci sono molte probabilità che il campo largo faccia filotto: tre a zero. Sarebbe un forte incoraggiamento alla Schlein perché proceda con maggior slancio a unificare le opposizioni. Se vuole evitare, però, che l’eventuale successo non si trasformi nell’effimera suggestione di «mid term», dovrà decidersi a sgomberare dal terreno i molti ostacoli che le impediscono di compiere il salto da un successo pur sempre amministrativo ad una vittoria nelle politiche. È già successo in passato che il centrosinistra vinca le regionali e poi alle politiche o venga sconfitto (nel 2010 prevalse alle regionali per poi soccombere l’anno dopo al rinnovo del Parlamento) o prevalga per il rotto della cuffia (nel 2006 vinse con uno scarto di soli 25mila voti alla Camera).

La ragione della fragilità del centrosinistra, che lo ha portato in passato, una volta passato al governo, ad avere una vita difficile o presto a rovinare, sta nella poca omogeneità politica dei suoi partner, ancor oggi ben lungi dall’essere superata. L’Ulivo prima, l’Unione dopo prevalsero entrambi nelle urne, ma presto dovettero soccombere proprio a causa della loro litigiosità interna. Nel 1997 per mano del rifondarolo Fausto Bertinotti, nel 2008 del capo dell’Udeur Clemente Mastella e del «sempre comunista» Franco Turigliatto.

Ora il campo largo ritenta la prova. I problemi però restano, forse addirittura aggravati. In passato le divergenze, se non venivano superate, erano almeno silenziate, segno se non altro di buona volontà. Da quel che si vede al presente, i motivi di contrasto, al contrario, non solo restano intatti ma addirittura si inaspriscono ancor prima che i partner affrontino il merito dei problemi, alla semplice idea di costruire una coalizione. Ci mancava solo l’arrivo del noto guastatore di governi Matteo Renzi per rendere esplosiva la situazione del traballante campo largo. Non si assiste, si badi bene, a scaramucce verbali suggerite da semplici calcoli tattici di alcuni partner, scaramucce suscettibili di rientrare al momento di sedersi al tavolo delle trattative. Siamo di fronte a veri e propri veti (da parte di Conte), di aperta contrarietà (da parte di Fratoianni e Bonelli) di malcelata diffidenza (della sinistra del Pd e degli stessi ex renziani rimasti nel partito). Le prese di posizione sono ultimative. «Resuscitare Renzi è un’operazione inaccettabile, un harakiri»: parola del capo del M5S. «L’ex premier ha esaurito un ciclo. Ha lasciato detriti che non vanno scaricati sul futuro»: intimidazione di Bettini, dirigente molto influente del Pd.

La Schlein cerca di arginare la litigiosità dei suoi promessi alleati invitandoli a lasciar da parte i nomi e a confrontarsi piuttosto sul programma. Metodo di lavoro doveroso per poter saldare la coalizione, ma purtroppo anche un campo minato in cui ad ogni passo l’accordo rischia di saltare. Jobs act, esercito europeo, Alleanza atlantica, Ucraina, Israele: sono queste le principali fonti di contrasto interne - come si vede, non di poco conto - al progettato campo largo. L’unico punto di convergenza pacifico è il salario minimo. Sul resto (lotta alla povertà, rivalutazione di stipendi e pensioni, lotta ai salari da fame, rilancio della crescita, contrasto all’evasione) non si va oltre le buone intenzioni, che in mancanza delle relative risorse finanziarie suonano come parole al vento: mine pronte a esplodere al primo contatto. Un pericolo concreto, questo, per il campo largo, visto che è popolato più da incendiari che da artificieri interessati a liberare il terreno dagli ordigni esplosivi.

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