Terrorismo, il contrasto e il rischio del contagio

ESTERI. Il terrorismo è un’ideologia mortifera che professa la distruzione di comunità per la loro appartenenza religiosa, nazionale o più in generale geografica.

Hamas è un’organizzazione terroristica che ha come obiettivo statutario l’annientamento di Israele. Il 7 ottobre scorso ha compiuto il più grave attacco terroristico (1.440 vittime e 202 ostaggi) mai subìto dallo Stato ebraico dall’anno della sua nascita, nel 1948. Il presidente americano Joe Biden a Tel Aviv ha invitato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a non ripetere gli errori compiuti dagli Usa dopo l’11 Settembre, a governare cioè la rabbia per non trasformare la risposta alla strage del 7 ottobre in una vendetta. Un connotato peraltro evidente nei massicci bombardamenti sulla Striscia di Gaza, nei quali sono morte finora 3mila persone (un migliaio i bambini) e un milione sono state costrette a sfollare da nord a sud.

Nel libro «Sconfiggere Hitler», l’ex presidente del Parlamento israeliano Avraham Burg ricorda come la Shoah abbia lasciato una ferita profonda nel popolo ebraico, anche in termini psicologici: la paura che l’orrore si ripeta, il timore della sparizione. Un’angoscia mai spenta che riemerge ogni qualvolta gli ebrei subiscono un attacco e che porta i loro rappresentanti ad agire in risposta - questa la testi di Burg - con un surplus di violenza. È poi evidente il fallimento della prevenzione degli attentati del 7 ottobre, quando ben 1.500 miliziani di Hamas sono riusciti incredibilmente a sfondare la recinzione della Striscia di Gaza e a penetrare in territorio israeliano, restandovi per ore indisturbati, con un dispositivo militare preparato in due anni. Ronen Bar, capo dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna, ha riconosciuto la responsabilità: «Nonostante una serie di azioni intraprese, quel giorno purtroppo non siamo stati in grado di dare un’allerta sufficiente a sventare l’attacco. In qualità di capo di questo organismo, la responsabilità ricade su di me». Silenzio invece dal ministero della Difesa, che nei mesi scorsi aveva concentrato ben 33 battaglioni in Cisgiordania a tutela delle colonie ebraiche lasciandone solo tre a riparo di kibbutz e città in prossimità della Striscia di Gaza, i luoghi colpiti dai terroristi.

A fronte di questo flop per il sistema di sicurezza israeliano, noto in tutto il mondo per la sua efficienza, Netanyahu ha messo in campo una rappresaglia di tale vastità per restituire al suo popolo il senso della protezione da parte dello Stato. L’obiettivo è la distruzione organizzativa di Hamas. Ma le migliaia di vittime dei bombardamenti su Gaza e lo spostamento forzoso di metà della popolazione palestinese, oltre a una grande tragedia, perché di questo si tratta per chi ne è colpito, creeranno un rischio: l’aumento del consenso al movimento islamista. La leadership dell’organizzazione potrà essere smantellata ma c’è la seria prospettiva di una rigenerazione, proprio perché il terrorismo è un’ideologia, una forma di odio che si trasmette e si insegna. Un’ideologia che non conosce confini. Lo Stato islamico non governa più il territorio a scavalco fra Iraq e Siria ma spopola in internet dove fa proseliti e li addestra.

L’ideologia della distruzione ha un seguito anche in ambienti occidentali: nelle manifestazioni di Roma e di Milano nella quali si è chiesta la fine dei raid su Gaza, si è inneggiato alla «Palestina libera» ma c’era chi gridava slogan a favore della sparizione di Israele. La via della pace non ha bisogno di questo nichilismo macabro ma della capacità di riconoscere l’altro nei suoi diritti. Perché nel Vicino Oriente sono in discussione due diritti: quello di Israele a poter vivere in sicurezza e quello dei palestinesi ad un loro Stato. Oggi non ci sono le condizioni politiche per raggiungere questo obiettivo. Hamas ovviamente non può essere considerato un interlocutore, l’Anp di Abu Mazen è fragile e in crisi di consenso. Il governo Netanyahu non prende in considerazione una soluzione condivisa del conflitto. Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze, leader dell’estrema destra e residente in una colonia in Cisgiordania, ha dichiarato recentemente che «il popolo palestinese è un’invenzione che ha meno di cent’anni di vita. Hanno una storia o una cultura? No, non le hanno. I palestinesi non esistono, esistono solo gli arabi». Si è dichiarato anche «fascista omofobo». Non serve aggiungere altro.

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