Sovranità energetica: il ritardo ha un prezzo

ECONOMIA. Al tavolo sull’automotive allargato, il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, annuncia l’arrivo di incentivi per l’auto elettrica. Un miliardo con l’intenzione di svecchiare il parco auto nazionale e rilanciare le vendite.

Ma il vero obiettivo è indurre «Stellantis» a non spostare la produzione italiana in altre sedi considerate più attrattive, come il Marocco per esempio. Rendere competitiva l’azienda Italia è il grande compito che attende questa legislatura. Ciò vale soprattutto per i Paesi a forte caratterizzazione manifatturiera come Germania e Italia. Al centro della riconversione industriale c’è l’energia. Una questione tecnica ma sommamente politica. Si fa presto a dire elettrico ma se l’approvvigionamento non è garantito nel tempo, le imprese non affrontano il rischio e non investono.

Ed è questo il nodo da affrontare. Alla sovranità energetica l’Europa poteva in passato forse aspirare con il carbone. Adesso senza il gas liquefatto le nostre industrie non avrebbero energia elettrica sufficiente per far funzionare gli impianti. Nel solo 2023 sono stati importati miliardi di metri cubi di Gnl da Algeria, Qatar e Stati Uniti. La Germania ha creato nuovi terminal nel Mar del Nord e prevede per i prossimi anni la costruzione di 50 nuove centrali a gas. La Francia ha impianti nucleari ma ha bisogno di investimenti massicci per riammodernarli e quindi in questa fase di passaggio anche Parigi non può prescindere dal gas. La verità è che l’Europa non ha sovranità energetica ed è sempre con il fiato sospeso. Secondo i dati di Federpetroli, il 34% del gas naturale liquido passa per il Mar Rosso, per il greggio siamo al 27%. Ecco spiegato perché Italia, Francia e Germania inviano le loro navi da guerra per fronteggiare gli attacchi Houthi contro le imbarcazioni battenti bandiere occidentali. Il sole e il vento sono di tutti e l’emancipazione dalla dipendenza energetica ha i colori dell’arcobaleno. Così hanno creduto in molti. Ma l’illusione verde è durata poco. Il dato di fatto è che allo stato attuale non vi sono batterie efficienti ed economicamente convenienti per assorbire e immagazzinare energia. Le rinnovabili per loro natura sono condizionate dal tempo. Le condizioni climatiche non si fanno comandare. Se non c’è vento le pale non vanno. Se non c’ è sole i pannelli sono inattivi. La notte il fotovoltaico è morto.

E allora come si fa a garantire un flusso costante di energia? La risposta è con le fonti tradizionali. Il gas in testa perché è il meno inquinante, ma poi a seguire il petrolio e il carbone. Le rinnovabili rimangono ma al contempo si crea un secondo circuito che scatta quando la produzione da rinnovabili diminuisce. E questo anche perché l’implementazione e la costruzione delle strutture a energia rinnovabile hanno bisogno di anni. Il governo tedesco aveva previsto l’installazione di cinque pale eoliche al giorno. Ma nel 2023 sono state due. Alla fine l’obiettivo di uscire dal carbone per il 2030 in Germania non verrà raggiunto. Una tendenza globale. Da qui al 2028 la domanda di petrolio crescerà del 6% a 105,7 milioni di barili al giorno, secondo i dati dell’Agenzia internazionale per l’energia. In questa fase di transizione, che è poi una rivoluzione, non vi è tuttavia creazione di valore aggiunto. La sostituzione di impianti a fine vita non crea di per sè crescita e una messa a riposo di impianti efficienti prima del compimento del loro ciclo produttivo non incrementa una crescita già di suo contenuta. Lo certifica a Berlino il comitato scientifico denominato dei «5 saggi» su incarico del governo federale tedesco. Il pianeta va salvato, l’auto elettrica anche ma la preservazione del nostro habitat ha un costo ed è compito della politica dirlo e soprattutto spiegarlo.

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