Sla, casi in crescita e diagnosi in ritardo. Un team per i malati e i loro familiari

LA GIORNATA NAZIONALE. Al «Papa Giovanni» dal 1992 è attivo un centro specializzato. «Spesso i pazienti arrivano qui anche un anno dopo i primi sintomi». L’importanza del supporto psicologico anche per i parenti.

Quando si arriva alla diagnosi, magari dopo aver a lungo girato tra specialisti in cerca di una risposta ai primi sintomi, il colpo è forte. Non solo sul fisico, ma anche sulla psiche. Perché la Sla – la sclerosi laterale amiotrofica, patologia di cui oggi ricorre la Giornata nazionale – resta ancora oggi una malattia in parte sconosciuta, ma soprattutto senza cura: porta alla progressiva perdita di mobilità e autonomia, infine alla morte. E i numeri sono in crescita, anche in Bergamasca, con uno spettro ampio nelle età.

La ricerca sulla Sla

«Negli ultimi dieci anni abbiamo avuto un incremento molto forte dei pazienti in cura: dai circa 60 del 2014, ora ne abbiamo oltre 150, con una media di 30-40 nuove diagnosi all’anno –

riassume Marcella Vedovello, neurologa del “Papa Giovanni” e referente del Centro Sla, attivo dal 1992, in cui sono presenti due neurologhe e figure di case manager sia per gli aspetti fisioterapici sia infermieristici –. È un aumento noto anche in letteratura scientifica e che dipende in parte anche dall’invecchiamento della popolazione. Solo quest’anno, da gennaio a giugno, abbiamo avuto 20 nuove diagnosi: l’età media è intorno ai 60-70 anni, ma lo spettro è molto ampio, con casi tra gli ultraottantenni ma anche tra i giovani di trent’anni».

I primi sintomi sono solitamente legati ai muscoli, a rigidità o a brevi contrazioni. Spesso, però, la diagnosi rischia di scontare un ritardo: «Nei pazienti c’è sempre un ritardo tra l’esordio della

«Spesso la diagnosi rischia di scontare un ritardo tra quando insorge la malattia e quando arriva in ospedale»

malattia e il momento in cui giungono al nostro centro – rileva Vedovello -, un periodo di tempo che va dai diversi mesi a un anno. Il ritardo diventa un problema importante, perché il paziente arriva quando ha anche disabilità già importanti, dopo aver peregrinato tra specialisti non idonei». Quanto alla sopravvivenza dopo la diagnosi, «dipende molto dalle scelte che il paziente fa riguardo alla ventilazione artificiale – spiega la neurologa -. Quello che compromette l’aspettativa di vita è l’insufficienza respiratoria. Se può accedere a ventilazione meccanica, prima non invasiva e poi invasiva, la sopravvivenza può aumentare di molto.

C’è un’attenzione alla pianificazione condivisa delle cure, per aiutare precocemente il paziente a scegliere quali sono le sue volontà. Secondo la letteratura la sopravvivenza in

alcuni casi è arrivata anche a 15-20 anni. Insieme all’Istituto Mario Negri stiamo facendo degli studi sui “lungosopravviventi”. Nel percorso della terapia collaboriamo con tutte le unità dell’ospedale, e in particolar modo con la pneumologia per la respirazione e la gastroenterologia per la nutrizione». Per questo gli sforzi della ricerca sono sempre più intensi. E se la cura non sembra ancora alle porte, dei passi in avanti si stanno comunque compiendo. «La terapia al momento più promettente è il Tofersen: si tratta di una terapia genica tramite rachicentesi che agisce riducendo la proteina prodotta dal gene mutato (la Sla è una malattia del motoneurone, ndr) che ha un’azione tossica per i neuroni. Ha dato risultati importanti, ma solo il 2% dei pazienti è predisposto geneticamente per questo percorso: in alcuni sottotipi di pazienti l’efficacia clinica ha mostrato un rallentamento nella progressione della malattia».

Il supporto psicologico per malati e parenti

Il «Papa Giovanni» mette in campo – ormai dal 2001 – anche iniziative di supporto psicologico per i pazienti, per i loro familiari per i caregiver. La Sla è una patologia «totalizzante», che riduce e infine annulla l’autonomia, condizionando pesantemente la vita del malato e di chi gli è vicino. «La Sla è una malattia che coinvolge tutta la famiglia, in particolare se c’è un partner vicino», rileva Maria Chiara Bignamini, psicologa e psicoterapeuta del «Papa

«La Sla è una malattia che coinvolge tutta la famiglia»

Giovanni». Il percorso si apre con una fase di consultazione, da uno a quattro colloqui, per conoscere il paziente e chi lo assiste; da lì si sceglie se proseguire nel supporto, con incontri periodici. «La Sla è una malattia ad alto impatto – ragiona Bignamini -. L’obiettivo è quello di provare a tollerare i cambiamenti e integrarli nella propria quotidianità: sono aspetti tutt’altro che semplici e scontati,

lavoriamo sul maneggiare le emozioni e le paure con meno difficoltà. Si parla di accettazione, certo, anche se è difficile accettare una cosa che non avremmo mai scelto e che stravolge la vita senza chiedere il permesso. Ma va gestita». Ma cosa rende meno traumatica la malattia? «Il poterla sentire gestibile, il sentire di rimanere noi stessi – riflette la psicologa -. Una delle preoccupazioni di chi ha questa malattia è diventare un peso eccessivo per i propri cari, e un aspetto importante è non rinunciare a chiedersi reciprocamente di cosa si ha bisogno: anche il malato può dare dei consigli, o può anche solo ascoltare. È un percorso che si affronta insieme».

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