L'Editoriale
Domenica 03 Settembre 2023
Se la pace può nascere dalla grande Mongolia
CHIESA. Lo sguardo di Francesco dalle steppe della Mongolia si allarga al mondo intero e ai suoi conflitti. Non poteva essere diversamente in questo Paese incastrato tra Cina e Russia, che Bergoglio da tempo vorrebbe entrambi visitare, ma che finora gli sono stati preclusi.
E allora è andato in Mongolia alla ricerca di un altro senso globale per tentare di disinnescare il conflitto, riproponendo cocciutamente la sua visione all’insegna della fratellanza che può battere ogni inimicizia. Nella prima giornata ad Ulan Bator lo ha fatto con caparbietà e con determinatezza rispolverando un concetto che può sembrare parzialmente scivoloso, ma che potrebbe aprire una nuova prospettiva nell’ impasse in cui è finita la guerra tra Mosca e Kiev. La «pax mongolica», che ieri il Papa ha evocato nel suo discorso davanti alle autorità politiche di Ulan Bator e ai diplomatici accreditati, compresi gli incaricati d’affari di Mosca e di Pechino, rafforza l’idea della Mongolia non come stato cuscinetto tra due superpotenze, ma come «Terzo Vicino» che potrebbe svolgere un «ruolo importante per la pace mondiale».
Sono le parole esatte pronunciate in italiano ieri da Francesco, che ha scelto di andare in un luogo che sta nel mezzo, vicino ad entrambi. In questi mesi di conflitto si è parlato più volte della Mongolia come sede di eventuali colloqui di pace tra Mosca e Kiev. Le caratteristiche di «tavolo franco» ci sono tutte. La Mongolia ha un’ ampia rete di relazioni diplomatiche, una democrazia salda, conquistata senza sangue dopo la fine dell’Urss, per anni padrino e padrone del Paese. Ma è anche un Paese assai prudente, convinto di poter usare la sua geopolitica nel grande gioco del continente asiatico e sullo scenario internazionale.
Alle Nazioni Unite si è astenuta sulla condanna dell’ «Operazione speciale», decisione più di buon senso, che di scelta ideologica, da parte di un Paese che riceve da Mosca l’80 per cento del suo fabbisogno energetico con il quale produce una ricchezza che per il 90 per cento finisce in Cina. E tutti sono convinti che senza Pechino non si troverà un modo per riportare la pace sul confine asiatico dell’Europa. Ma più di tutti ne sono convinti in Vaticano, dove vanno avanti i preparativi per il quarto capitolo della missione del card. Matteo Zuppi, che non è una mediazione, ma una sollecitazione verso gli interlocutori che possono fischiare la fine di una drammatica partita.
Pechino è tra costoro. Ma nessuna pax cinese, come nessuna pax americana, né tanto meno una pax russa, può avere successo. Così Bergoglio rilancia, tra lo stupore di molti osservatori, l’idea di una «pax mongolica», riproponendo un concetto usato da molti storici per definire le condizioni di relativa sicurezza e di concordia tra i popoli al tempo dell’immenso impero mongolo. Non è tuttavia un concetto facile da maneggiare e infatti il Papa nel suo discorso di ieri ha spiegato che le condizioni di una «pax mongolica», cioè l’assenza di conflitti, vanno ricreate «nel rispetto delle leggi internazionali». La pax mongolica venne raggiunta al prezzo di tanto sangue e con l’imposizione di rigide dominazioni, con tasse pesantissime e la repressione di ogni ribellione. L’immenso impero mongolo non venne costruito in punta di diplomazia, ma di spada. Tuttavia quella pax mongolica ebbe anche conseguenze positive con la riapertura della Via della seta sotto la protezione imperiale, con economie e traffici che rifiorirono per l’ordine imposto dai mongoli. E quella pax mongolica permise anche i viaggi di Marco Polo e di quel Giovan da Pian del Carpine inviato da Papa Innocenzo IV per un’ambasceria verso i Mongoli ricordato ieri nel saluto al Papa dal presidente della Mongolia.
La frase sulla «pax mongolica» nel discorso di Bergoglio è un capolavoro di iniziativa geopolitica, perché invita a prendere il meglio del passato, smacchiato e riordinato con il rispetto delle leggi internazionali sulla convivenza e il rispetto delle culture, sancite dalle Nazioni Unite, e affida praticamente ad un Paese piccolo, ma di importanza cruciale, uno strumento che nel recente passato, nella versione della pax americana dei Bush padre e figlio, ha segnato solo insuccessi e tragedie. Se la Mongolia si muove sa che la Santa Sede sarà dalla sua parte.
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