Obama parla all’America che spera nel futuro

MONDO. La speranza contro la rabbia. Barack Obama, con la moglie Michelle, ha riadattato il suo fortunato slogan restituendolo a favore di Kamala Harris, alla Convention democratica che si svolge nella sua Chicago: «Sì, lei può».

La coppia di successo dei dem, i veri artefici della candidatura in extremis della vice di Joe Biden, ha segnato i confini della maratona elettorale fra le due Americhe: una ottimista e plurale, l’altra introversa e ripiegata su se stessa. L’ex outsider dell’era di Internet divenuto il primo presidente afroamericano ha così rinnovato uno slancio creativo che ha colto l’attimo: l’uscita di scena, fra le lacrime, di Biden ha innescato un terremoto nella dinamica elettorale, correggendo i rapporti di forza fra i due candidati e riaprendo una corsa che sembrava chiusa con Trump imbattibile. Il sacrificio del presidente, inseguito da una impietosa asimmetria anagrafica (troppo giovane per fare il senatore, troppo anziano per la Casa Bianca) e tuttora determinato a chiudere una lunga carriera con l’accordo su Gaza, ha ricompattato il partito fatto di tante tribù, schierando il patriziato dei democratici, con i Clinton e gli Obama.

Nelle Convention prevalgono la mozione degli affetti, l’orgoglio dell’appartenenza, la retorica e le emozioni sul calcolo della razionalità. In una partita estremamente fluida e in salita per i democratici, Kamala ha dalla sua soltanto un vantaggio psicologico, dettato da una certa vivacità di carattere e dalla possibilità di essere ora conosciuta da quel pubblico vasto di indecisi e non ideologico.

Trump, orfano di Biden, è nella scomoda posizione di un’età sfavorevole e di un cesarismo già tristemente noto. Un’America polarizzata, mai così dalla guerra nel Vietnam con annessi conflitti culturali, due modelli sociali alternativi. Uno guarda avanti, fra speranza e fiducia nel cambiamento: tutto ciò che ha fatto gli Stati Uniti che conosciamo. L’altro si rivolge all’indietro, all’America di un tempo che non c’è più. Gli americani votano con il portafogli soprattutto oggi perché, per l’impatto dell’inflazione, non percepiscono gli effetti delle decisioni di Biden (sostegno agli investimenti e politica industriale), in quanto il potere d’acquisto ha subito una perdita fra il 30 e il 40%. In gioco il destino della classe media, quella dei perdenti della globalizzazione che avevano fatto la fortuna del primo Trump. Il tutto in una cornice che allude alla fine di un’epoca.

Il vecchio modello di Reagan confligge con la crisi della globalizzazione. La Borsa, dopo anni di continui aumenti, è volatile e per le Bigh Tech, dopo la sentenza per abuso di posizione dominante contro Google e i tentativi di Biden di disciplinarne l’espansionismo, la musica potrebbe cambiare. Trump punta sul capitalismo libertario degli «spiriti animali», ma gli sgravi fiscali per le grandi aziende e l’1% più ricco contraddicono il suo sostegno alla classe media. Harris propone incentivi fiscali per le fasce centrali e basse, ha mutuato dal tycoon l’idea di eliminare le tasse sulle mance (una voce che nella ristorazione è parte del salario), tuttavia ha compiuto un passo falso con la controversa intenzione di mettere un tetto ai prezzi alimentari al dettaglio che avrebbe effetti distorsivi. Un’uscita da populismo progressista, non particolarmente felice e che le ha procurato l’accusa di essere «comunista».

L’interventismo dello Stato appesantisce disavanzo e debito pubblici già elevati, ma resta da vedere se gli americani, i primi della classe, ritengono più grave e prossima una crisi fiscale o una democrazia dal futuro incerto.

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