
( foto ansa)
MONDO. «Si ricordino i principi – ammoniva Niccolò Machiavelli - che si cominciano le guerre quando altri vuole, ma non quando altri vuole si finiscono». Vale anche per le guerre commerciali.
I timori dei mercati finanziari sulla possibile frenata della crescita, testimoniati dai crolli di Borsa delle scorse ore, sono soltanto una delle prime conseguenze negative dei dazi stabiliti dal presidente Trump. In assenza di una correzione di rotta, seguiranno le difficoltà per tante imprese che dell’export hanno fatto uno dei loro principali strumenti di sviluppo. Poi arriveranno i danni per i consumatori, a partire da quelli americani, che potrebbero fronteggiare un aumento dei prezzi di tanti prodotti importati. In breve, dunque, ha ragione il governo italiano – che ieri ha riunito a Palazzo Chigi una task force presieduta dalla premier Meloni - quando osserva che «una guerra commerciale non avvantaggerebbe nessuno, né l’Unione Europea né gli Stati Uniti» e invita ad «affrontare il tema con determinazione e pragmatismo».
In quest’ottica, però, tutta la classe dirigente italiana farebbe bene a non concentrarsi solo sui possibili contraccolpi che arrivano da ovest, cioè per quelle nostre aziende che esportano verso gli Stati Uniti. È da est, infatti, dalla Cina per la precisione, che potrebbe giungere un contraccolpo ben più dirompente per il nostro tessuto produttivo. Il perché lo ha accennato la stessa presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, quando lo scorso 3 aprile ha dato la prima risposta pubblica al «Liberation Day» di Trump. In un passaggio un po’ sottovalutato del suo discorso, von der Leyen ha detto: «Osserveremo inoltre con attenzione gli effetti indiretti di questi dazi, perché non possiamo assorbire una sovrapproduzione globale, né accetteremo il dumping alla volta dei nostri mercati». Parlando di «sovrapproduzione», o «overcapacity» in inglese, si fa riferimento allo squilibrio globale alimentato ormai da anni dall’economia cinese.
Fuori dal gergo degli economisti, Pechino per decenni ha investito massicciamente risorse – soprattutto pubbliche – per rafforzare la manifattura e potenziare le esportazioni, a fronte invece di consumi interni decisamente deboli. Al punto che lo scorso anno le esportazioni sono state responsabili di un terzo del tasso di crescita del 5% del Pil cinese, una quota mai così alta dal 1997. Questa sovrapproduzione si riversa sui mercati di tutto il mondo, quelli occidentali in primis, mettendo fuori gioco – rectius: fuori mercato - un numero crescente di industrie di altri Paesi che non godono del generoso sostegno pubblico dei propri Stati, e che devono rispettare regole su ambiente e lavoro ben più stringenti di quelle dell’ex Impero celeste.
Perché ora il problema rischia di aggravarsi? Perché se Washington erige una barriera all’ingresso particolarmente alta per i prodotti cinesi, come dimostrato da tariffe anti-Pechino che addirittura raggiungono il 70%, gli stessi prodotti destinati agli States dovranno trovare altri mercati di sbocco, pena il fallimento delle aziende del colosso asiatico. Per avere idea della dimensione del problema, basti dire che gli Stati Uniti nel 2024 hanno importato beni «made in China» per un valore di 440 miliardi di dollari. Come ha ricordato il Wall Street Journal rielaborando dati dell’Organizzazione mondiale del commercio, è cinese un quinto di tutto l’acciaio e il ferro importato dagli States, oltre un quarto di tutti i prodotti elettronici, un terzo di tutte le scarpe, tre quarti di tutti i giocattoli e così via. Facile immaginare cosa possa comportare, per un mercato come quello europeo, dover «assorbire» una parte o la totalità di quei prodotti che normalmente sarebbero stati destinati all’altra sponda dell’Atlantico: una ulteriore pressione al ribasso sui prezzi di tanti listini e una dose aggiuntiva di concorrenza (sleale) per le aziende del Vecchio continente. Dal Brasile al Canada, passando per la stessa Ue, negli ultimi anni già erano diventate più frequenti le barriere tariffarie erette verso est, si pensi solo al caso delle auto elettriche cinesi su cui Bruxelles ha imposto nuovi balzelli negli scorsi mesi. In un prossimo futuro, però, come europei potremmo trovarci di fronte un’alternativa diabolica: aumentare anche noi di molto alcuni dazi, alimentando la guerra commerciale globale, o accelerare la nostra deindustrializzazione. Ecco un altro motivo per spingere con ogni mezzo Washington a un ripensamento della sua deriva protezionistica generalizzata.
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