Meloni, fare la Storia. Ma il tempo decide i meriti

ITALIA. «Stiamo facendo la storia» è diventata una delle frasi ricorrenti utilizzata dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

Un escamotage utilizzato sia per chiosare il giudizio sulle iniziative del governo, sia per sbarrare, con irriducibile fierezza, le critiche sull’operato dell’esecutivo. Una sorta di mantra con il quale si tenta di minimizzare le difficoltà nell’azione di governo, per mettere nell’angolo coloro che ne criticano l’operato.

Il modo e i momenti nei quali Meloni utilizza lo slogan hanno due possibili origini. La prima è di carattere soggettivo, connessa al giudizio che ha di se stesso l’autore della frase. «Fare la storia» fa pensare ad Alessandro Magno, a Carlo Magno, oppure a Napoleone e - in tempi meno lontani - a Cavour oppure a De Gasperi. A decidere su quali basi sia ragionevole autoassegnarsi, come usa fare il presidente del Consiglio, l’aureola di artefice di cambiamenti epocali è il tempo storico, di regola piuttosto lungo. Un tempo che permette di verificare il peso delle svolte, legate ai successi (ma anche agli insuccessi) di chi è chiamato - per scelta o per caso - a imprimere una svolta tangibile nel governare. Lo slogan caro a Meloni, al contrario, appare più vicino alla sconsiderata frase di Gigino Di Maio, il quale da un balcone di Palazzo Chigi, proclamò che il Movimento 5 Stelle aveva «abolito la povertà». Espressione infelice e priva di qualsiasi fondamento che fece sorridere la maggioranza degli italiani, che dalle loro case si chiedevano: come? quando?

Il secondo aspetto dello slogan usato dal presidente del Consiglio è connesso al tipo di «narrazione» che il governo attuale imprime alla sua azione politica e ai risultati che raggiunge, o afferma di raggiungere. Su questo terreno non è difficile scorgere - nelle dichiarazioni di esponenti della maggioranza - una disinvolta propensione a «raccontare» in modo enfatico successi non ancora raggiunti, ovvero a minimizzare gli errori o le inevitabili criticità che vi sono nell’operato di qualsiasi governo. Quello attuale ha scelto di ridurre la politica ad una sorta di «slogan machine», che sforna - quasi quotidianamente - annunci più o meno efficaci o più o meno veritieri.

A pensarci bene c’è una particolarità della lingua italiana che potrebbe offrire una spiegazione del significato effettivo della parola «storia». Come si sa, con essa si identificano sia i fatti accaduti, come, ad esempio, la storia d’Italia, sia la ricostruzione - storica, appunto - che di tali avvenimenti racconta le vicende e ne fornisce l’interpretazione. La suddetta duplicità ha un suggello chiarificatore nella lingua inglese, nella quale si distinguono con precisione i due significati. Il termine «history» indica gli accadimenti, mentre la parola story identifica il racconto, la narrazione. Analoga suddivisione esiste, del resto, nella lingua latina, in cui «res gestae» e «historia rerum gestarum» indicano, rispettivamente, la conquista della Gallia da parte di Giulio Cesare e il racconto che egli ne fa in quanto storico.

In questo duplice orizzonte può diventare meno nebuloso il costante richiamo di Giorgia Meloni al «fare la storia». Appare plasticamente che difficilmente l’insieme dell’operato del governo in carica possa essere classificato come «history», mentre balza agli occhi con evidenza che il richiamo meloniano possa configurarsi semplicemente come «story». Racconto, appunto. Narrazione. Al riguardo, appare esempio calzante una affermazione cara all’ex ministro Sangiuliano, che amava dire che occorre cambiare la «narrazione» della cultura. Piuttosto che modificare, con i fatti, la cultura preesistente, è più semplice cambiare la sua narrazione.

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