Lo partita dei dazi fra Europa e Cina

MONDO. La storia insegna che l’apertura commerciale e la libera circolazione di merci, capitali, idee e persone sono potenti motori d’integrazione e prosperità.

La Cina è il terzo mercato principale per le merci provenienti dall’Unione europea e il primo fornitore mondiale del mercato unico. A fine 2022 lo scambio di merci tra Ue e Cina aveva già raggiunto gli 856 miliardi di euro, pari quasi a quello con gli Stati Uniti. Dieci anni fa era meno della metà. Anche i rapporti economici tra Cina e Italia negli ultimi dieci anni hanno avuto un notevole sviluppo. In Cina operano circa 2.300 aziende italiane, alle quali sono complessivamente riconducibili oltre 60.000 posti di lavoro e un fatturato di circa 5 miliardi di euro. Tra queste vi sono anche alcune importanti aziende bergamasche.

La Commissione europea, tenuto conto della rilevanza assunta dai rapporti commerciali con la Cina, ha ritenuto opportuno in passato stabilire accordi che potessero rendere più stabili e proficue le relazioni. Il più importante passo è stato compiuto nel 2020 con un grande accordo denominato «Comprehensive Agreement on investment», che ha sostituito 35 accordi bilaterali precedentemente in vigore. Con esso, ci si è posto l’obiettivo di consentire agli Stati dell’Ue un accesso al mercato cinese più ampio, anche con l’inserimento di nuovi settori. Una scelta quanto mai opportuna, volta a riequilibrare una pregressa situazione asimmetrica e ad assicurare che le imprese dell’Unione europea avessero in Cina lo stesso trattamento che la Ue riserva a quelle cinesi in Europa.

Questo accordo è stato reso possibile grazie alle continue aperture ai principi del libero mercato che hanno caratterizzato gli interventi di Xi Jinping in occasione di alcuni G20. Tuttavia, quello che sta avvenendo oggi nei rapporti commerciali tra Ue e Cina fa pensare che quelle dichiarazioni, che avevano illuso i competitori occidentali, fossero solo di facciata. Nascondevano, infatti, una strategia che era già in atto, orientata a favorire le esportazioni cinesi attraverso consistenti aiuti alle proprie aziende per favorire un rilancio dell’economia il cui andamento era del tutto insoddisfacente. Per esigenze di tutela degli equilibri sociali e politici interni la Cina ha bisogno di crescere a due cifre, come è avvenuto fino alla crisi del 2008. Negli anni successivi, l’economia è cresciuta poco e ha raggiunto il 5% solo a fine 2023. Peraltro, il mutamento degli scenari internazionali, conseguente all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e al conflitto israelo-palestinese, ha reso evidente per la Cina l’impossibilità di raggiungere i necessari livelli di crescita se non ricorrendo a interventi statali.

Essendo, come noto, l’economia cinese basata soprattutto sulle esportazioni, tali interventi sono stati orientati soprattutto verso consistenti aiuti economici alle aziende che operano in settori strategici e hanno principalmente riguardato il colosso dell’energia solare LONGi e il più grande costruttore di auto elettriche al mondo, la BYD. Gli aiuti per centinaia di miliardi hanno consentito a queste e ad altre aziende di crescere rapidamente, facilitandone l’espansione nei mercati occidentali. Per contrastare questa strategia cinese, seguendo l’esempio degli Usa, la Commissione europea ha deciso il 12 giugno scorso di accrescere i dazi sull’importazione dei veicoli elettrici dalla Cina dal 10% fino al 48%. Ciò potrebbe determinare ripercussioni molto negative nei consolidati rapporti commerciali italo-cinesi. Parafrasando un famoso proverbio di matrice evangelica varrebbe la pena ricordare che «chi di dazi ferisce di dazi perisce».

Principale compito dell’Europa, quindi, dovrebbe essere quello di rispondere alla domanda sul perché le sue istituzioni economiche e finanziarie siano meno efficaci nel generare i necessari investimenti tecnologici rispetto alle controparti cinesi, anche tenendo conto dei sussidi statali in Cina. La storia insegna che l’apertura commerciale e la libera circolazione di merci, capitali, idee e persone sono potenti motori d’integrazione e prosperità. Quello che l’Europa deve imparare è saper distinguere gli elementi che possono costituire una vera e propria minaccia alla sicurezza nazionale da quelli che in realtà rilevano la sua debolezza nel costruire le basi per un’economia all’altezza di una corretta competizione internazionale. Questo vale anche per l’Italia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA