L’identità di genere, guidare il disagio

MONDO. La «disforia di genere» è una malattia da curare o una condizione da favorire?

Sembra essere questo il dibattito sul disagio che alcuni bambini e adolescenti manifestano a riguardo del proprio sesso - maschile o femminile - per cui desiderano essere identificati nel sesso opposto. I segnali possono venire dal fatto che preferiscono indossare abiti tipici dell’altro sesso o partecipare a giochi e attività tipicamente dell’altro sesso, ma soprattutto insistono nell’affermare di «sentirsi» o «essere» dell’altro sesso e provano sentimenti negativi nei confronti dei propri genitali. Però è anche vero che se un bambino, qualche volta, gioca con le bambole o vuole ricevere lo stesso trattamento «speciale» riservato alla sua sorellina, probabilmente non ha alcuna disforia di genere e tantomeno una bambina che gioca a calcio.

Serve infatti una «intensa e persistente» identificazione con l’altro sesso, di almeno sei mesi per gli adolescenti e di due anni per i bambini (Dsm-5 e Icd11). I più recenti dati dell’American academy of child & adolescent psychiatrye dall’Endocrine society dicono che dall’88,1% al 97,8% degli adolescenti e l’85% dei bambini con lo sviluppo supera questa convinzione. Dati confermati nel reparto di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’ospedale Niguarda di Milano. Tuttavia per alcuni può permanere un forte desiderio di appartenere al sesso opposto, continuare a sentirsi a disagio nelle relazioni sociali e provare una sofferenza clinicamente significativa. Quindi cosa fare?

Il «protocollo olandese», che per lungo tempo è stato utilizzato a livello mondiale, prevedeva l’interruzione dello sviluppo puberale con bloccanti ormonali e, dopo questa «messa in pausa» se il disagio persiste, passare alla transizione sessuale mediante ormoni cross-gender per far crescere la barba o il seno e interventi chirurgici per riconfigurare gli organi genitali. Ma la stessa dottoressa Annelou de Vries, che ha redatto il protocollo, adesso visto che l’esperienza clinica ha dimostrato che la maggior parte delle volte la disforia di genere scompare «prima o subito dopo l’inizio della pubertà» non solo chiede di non iniziare trattamenti, ma di cercare le cause del disagio «in altri malesseri concomitanti che possono venire dall’ambiente familiare». E inoltre raccomanda ai bambini piccoli di «non fare ancora una completa transizione sociale (abbigliamento diverso, nome diverso, riferirsi a un ragazzo come «lei» anziché «lui») prima dello stadio della pubertà».

Pertanto poiché la disforia di genere è destinata a risolversi nella maggioranza dei casi, non è prudente né rispettoso della loro salute, instradare bambini e adolescenti verso una medicalizzazione ormonale a vita, sottoporli ad interventi chirurgici irreversibili e causandone la sterilità. La tutela della salute e il principio della terapeuticità degli interventi medici esigono la massima attenzione quando si ha a che fare con i minori. Per questo motivo il ministero della salute dispone in via precauzionale accertamenti, come è attualmente in corso presso l’ospedale Careggi di Firenze circa l’uso della triptorelina, il farmaco che blocca la pubertà.

Ma allora cosa fare quando si manifesta il disagio e nel tempo in cui dura? Prendersi carico della famiglia e non solo del bambino o dell’adolescente. Entrare con un adeguato accompagnamento psicologico nelle problematiche relazionali che si manifestano con quel sintomo e favorire di nuovo lo sviluppo che porta alla congruenza tra la percezione di sé e il sesso originario. Questo oltre a riportare benessere è anche ciò che permetterà a quel ragazzo o ragazza di vivere appieno la propria sessualità nell’amore e nella generazione.

Ancora una volta è determinante l’attenzione al vissuto affettivo e relazionale per poter aiutare ad affrontare ciò che fa soffrire fino a far pensare di essere «in un corpo sbagliato». La sofferenza e il disagio non vanno mai banalizzate, ma la famiglia, se adeguatamente supportata, è ancora la «migliore terapia», poiché nell’età dello sviluppo, ma anche dopo, ciò che fa crescere come persone è potersi riconoscere in chi ci ha donato la vita e imparare a ricevere e donare amore per essere felici. E il linguaggio dell’amore è la nostra sessualità.

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