L’Europa a rischio sulle grandi questioni

MONDO. Sostiene Ursula von der Leyen che quello di mercoledì 27 novembre è stato «un bel giorno per l’Europa perché il voto mostra la tenuta del centro».

Si vorrebbe darle ragione, ma i numeri raccontano un’altra storia: la seconda Commissione guidata dalla politica tedesca dei popolari (Ppe) è passata all’Europarlamento soltanto con 10 voti in più rispetto alla maggioranza assoluta degli aventi diritto (360 su 720). A luglio, quando aveva ottenuto il mandato bis, i «sì» erano stati 401.

L’epilogo parla del peggior risultato di sempre, dagli anni del primo esecutivo del lussemburghese Santer nel ’95. A Ursula il gioco di prestigio di una maggioranza a fisarmonica è riuscito, a prezzo però di pagare pegno, perdendo 31 voti: la sua squadra appare più debole e frantumata. L’equilibrismo, in puro stile manuale Cencelli, di mettere insieme la tradizionale maggioranza (popolari, socialisti, liberali) con i conservatori di Giorgia Meloni, che ha giocato la partita da ambidestra sin dall’inizio, e i verdi ha scardinato gli equilibri interni ai gruppi. Lo sbandamento con ricucitura finale per accontentare tutti ha avuto due origini: la designazione di Raffaele Fitto (non come giudizio personale sull’ex democristiano, ma in quanto espresso dai conservatori) a vicepresidente esecutivo e la pressione dei popolari contro la socialista Teresa Ribera a numero due della Commissione. Il primo caso ha allargato la maggioranza a destra definendo un perimetro ibrido, in cui il gruppo di Meloni si distanzia dai patrioti di Orban e Salvini, parcheggiandosi all’ala destra esterna e contigua al Ppe. Il secondo riflette lo scontro in Spagna fra socialisti e popolari dopo l’alluvione di Valencia.

Il ridotto sostegno a von der Leyen ha subìto quindi i riflessi di controversie nei singoli Paesi e, insieme, della complessa macchina istituzionale della Ue, per cui la Commissione è prigioniera di due logiche che non stanno insieme: quella dei governi nazionali e delle forze parlamentari che sono sovranazionali. Il risultato è sì un baricentro europeista, ma non esattamente una maggioranza dalla precisa identità. Il rischio è che sui grandi temi dirimenti si proceda «à la carte», con chi ci sta pescando nei due forni: se sulla stretta ai migranti e sul raffreddamento del Green deal non si riesce con i partiti storici, ecco che si può ricorrere al soccorso dei conservatori. La retorica d’ufficio, peraltro nella peggior congiuntura geopolitica dalla fine della Guerra fredda, impone l’unità d’intenti che tuttavia pure in questa occasione non s’è vista. Spaccati i socialisti (contrari i francesi, astenuti i tedeschi), i verdi (quelli italiani hanno votato contro), i popolari (specie spagnoli). Anche i conservatori: 33 a favore (tra cui gli italiani di Fdi) e 40 contrari, fra i quali i polacchi dell’ultradestra. Un dato che potrebbe avere un seguito, perché il successore di Meloni a presidente di questa destra sarà proprio l’ex premier polacco che potrebbe avvicinare i sovranisti «pragmatici» all’ungherese Orban, creando problemi di agibilità e di coerenza alla delegazione italiana.

Fra trumpismo di ritorno e neoimperialismo di Putin, l’Europa, prossima orfana dell’atlantismo di Biden, stenta a ritrovare se stessa, a scegliere se essere spettatrice o protagonista, a fare grandi riforme e a prendere decisioni politiche forti

Il Rapporto Draghi

Il discorso d’investitura della presidente von der Leyen è parso senza slancio e non ha aggiunto idee nuove. La priorità rimane il Rapporto Draghi secondo tre direttrici: chiudere il divario d’innovazione con Stati Uniti e Cina, un piano comune per la decarbonizzazione e la competitività, l’aumento della sicurezza e la riduzione delle dipendenze. È mancata però una presa di posizione sulla svolta essenziale indicata dall’ex presidente della Bce, cioè il debito comune per rilanciare gli investimenti: questione tabù per i capofila del rigore come Germania e Olanda, gli stessi che, a differenza dell’Italia promossa, sono stati richiamati in questi giorni da Bruxelles sui conti pubblici. Fra trumpismo di ritorno e neoimperialismo di Putin, l’Europa, prossima orfana dell’atlantismo di Biden, stenta a ritrovare se stessa, a scegliere se essere spettatrice o protagonista, a fare grandi riforme e a prendere decisioni politiche forti. È il segno di un progressivo smarrimento dinanzi all’avanzata di populisti e sovranisti. La Germania è in piena crisi economica e politica, la Francia è sotto scacco dell’astensione di Marine Le Pen forse pronta a staccare la spina al nuovo governo, mentre nell’ex marca sovietica si rafforzano i partiti filo russi come in Georgia e persino in Romania, dove un outsider ha vinto il primo turno delle presidenziali. L’Est si sta polarizzando fra l’atlantismo di Polonia e Baltici da una parte e il contagio revisionista alla Orban e simili che, nei fatti, non argina le mire espansioniste del Cremlino e rompe la solidarietà fra i Ventisette.

L’incognita Usa

Con una prossima Casa Bianca di rottura che impatta sulle fortune degli architetti del caos nella Ue, molto dipenderà dall’influenza e dall’equilibrio dei popolari tedeschi, che alle elezioni anticipate del prossimo anno torneranno alla guida della cancelleria.

Ma anche il Ppe a leadership tedesca, pur mantenendo l’ortodossia europeista, sta cambiando pelle sulla falsariga dei conservatori britannici per contenere l’offensiva casalinga dell’estrema destra, archiviando definitivamente il centrismo di Angela Merkel, sottoposta oggi a critiche ingenerose con il senno di poi. Il bis di Ursula non chiude la storia ma la riapre nell’incertezza, la cifra del nostro tempo, fra vecchi e nuovi problemi che affliggono la democrazia continentale.

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