L’Europa competitiva, cosa manca all’Italia

MONDO. Il tema della competitività è oggetto in Europa di discussioni intergovernative. «Nuovo Patto europeo sulla competitività» è il documento che riprende le linee guida tracciate da Mario Draghi e Enrico Letta, due ex premier italiani.

L’8 novembre verrà presentato. L’obiettivo è cercare di recuperare il divario in innovazione e produttività che separa l’Unione Europea da Stati Uniti e Cina. Sulle analisi tutti i 27 sono d’accordo ma quando si tratta di giungere a conclusioni operative ecco che scatta la maledizione europea. La sfiducia che impedisce al Nord_Est d’ Europa di condividere rischi con quelli che adesso si definiscono Figs (Francia, Italia, Grecia e Spagna). La P di Portogallo è saltata per il recupero in termini di credibilità economica e politica e poi per la simpatia che il mondo anglosassone riserva da sempre ai lusitani. Per sostenere gli investimenti nelle rinnovabili, nella digitalizzazione, nella transizione energetica, nella difesa e nella ricerca occorrono circa 800 miliardi.

Investimenti privati

Una cifra enorme che richiede la creazione di un debito comune europeo. I tedeschi con il ministro delle Finanze Christian Lindner si oppongono veementemente. Propongono di ricorrere ai soli investimenti privati. Cosa ovviamente impossibile se non è chiaro agli investitori un piano regolatorio che certifichi una libertà di capitali che attualmente è solo sulla carta. D’altro canto i liberali al governo, come del resto la Cdu all’opposizione, in Germania sono per la parità di bilancio e quindi il divieto di fare debito se non in percentuali da zero virgola. Basti guardare come funzionano i servizi, dalle ferrovie, alla digitalizzazione fino alla cura e inserimento dei migranti per capire che è la chiusura culturale che blocca la Germania di oggi e la getta in recessione.

Gli scandali italiani

E tuttavia va pur detto che un contributo a questa ottusità la forniscono anche gli ex maialini (Pigs) del Sud Europa. I recenti e ripetuti scandali italiani di questo mese di ottobre lasciano intendere un malcostume diffuso nella Penisola. La facile permeabilità delle banche dati strategici e l’intreccio tra criminalità e istituti bancari danno munizioni a chi non si fida delle istituzioni italiane e quindi si rifiuta di far loro credito. L’arretratezza digitale e i controlli inadeguati favoriscono una nuova tipologia di crimine. Ed è il Procuratore nazionale antimafia a definire il tutto un mercato clandestino delle informazioni riservate. Il che vuol dire che ciò che si riteneva sicuro non lo è più. E se non lo è per il cittadino italiano, perché dovrebbe esserlo per il cittadino tedesco o olandese o lituano, si chiedono nelle rispettive capitali. Se solo pensiamo a quello che dobbiamo compilare per la protezione della cosiddetta «privacy», colpisce la modalità. A noi un sacco di carta e di password da compilare e agli altri il facile accesso ai nostri dati.È questa la democrazia dell’era digitale? La differenza fra uno Stato autoritario e uno che si ritiene democratico passa da qui.

Il digitale

Se si permette a chi è intenzionato di delinquere e di operare senza controlli, si crea una condizione di opacità che porta il Paese ad essere inaffidabile e potenzialmente pericoloso. L’arretratezza tecnologica e digitale non è più solo una mancanza, è una colpa. Espone ai ricatti e svuota dall’interno la sovranità di un Paese. Ecco perché quello che è un fatto di cronaca diventa elemento di valutazione strategica. L’Italia ha bisogno di crescita economica e quindi di investimenti massicci nelle tecnologie d’avanguardia. C’è bisogno di start-up ovvero di piccole imprese che anticipano le richieste del mercato e portano a buon fine le analisi dei centri di ricerca e delle università. Gli investimenti sono determinanti perché danno spazio finanziario ai giovani e li incentivano all’intrapresa. Dove prendere i soldi? Dal mercato è la risposta. Ma i soggetti finanziari investono dove le leggi e le regole sono rispettate. La stabilità non è solo quella politica della durata dei governi. È soprattutto quella istituzionale dove la prevenzione è la vera conquista e la repressione solo il risvolto consolante della sconfitta.

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