Le pretese della Francia su Trinità dei Monti. Disputa fuori dalla storia

MONDO. A detta dei francesi, sarebbe di loro proprietà. E non solo perché fu costruita con fondi provenienti da Parigi.

Non si sa bene se piangere o ridere di fronte all’ennesima comédie française. Questa volta, i nostri cugini d’Oltralpe rivendicano Trinità dei Monti, l’icona che troneggia su piazza di Spagna, «la più bella piazza del mondo», come scrive D’Annunzio, «una piazza in cui pare sia raccolto tutto il fascino della mollezza quirite, un luminoso tepidario cattolico, protetto dalla Madonna fons amoris!». A detta loro, sarebbe di loro proprietà. E non solo perché fu costruita con fondi provenienti da Parigi, ma perché la gestiscono da due secoli i «Pieux établissements de la France à Rome», un organismo che fa capo all’ambasciata presso la Santa Sede della République.

La Corte dei Conti francese ha preso carta e penna, stilando un rapporto in cui critica la gestione delle cinque chiese francesi presenti nella Capitale. La proprietà, secondo loro, sarebbe esclusivamente di Parigi. Ma non paghi di questa rivendicazione, hanno messo il dito nella piaga, sollevando la questione più spinosa: il destino dell’intero complesso di Trinità dei Monti, che si estende per oltre tre ettari nel cuore di Roma e che, dal 1828, è occupato dai religiosi della Comunità Emmanuel in base a un accordo tra Carlo X e Papa Leone XII.

Ora, si potrebbe persino sorridere di fronte a queste pretese, se non fosse che il rapporto sembra voler riaccendere una vecchia disputa: la proprietà della scalinata di Piazza di Spagna. Costruita all’inizio del XVIII secolo con denaro francese, la scalinata fu mantenuta dai Pieux établissements fino alla fine del secolo scorso. E secondo loro, questo basterebbe per affermare che anche la scalinata debba tornare sotto la bandiera francese.

Se così fosse, saremmo pronti a rimettere in discussione il destino di molte opere italianissime che, ancora oggi, languono in Francia. Non stiamo parlando della Gioconda, regolarmente acquistata da Francesco I con una fattura in regola di 4mila ducati. Ma ci sono opere che furono letteralmente saccheggiate da Napoleone durante le sue campagne in Italia e che, nonostante i trattati, non ci sono mai state restituite.

Pensiamo alla «Vergine delle Rocce», il capolavoro di Leonardo da Vinci. Quella che oggi riposa al Louvre non è una copia, ma l’originale, portato via dalle truppe napoleoniche e mai tornato in Italia. Lontano dalla sua patria, come una reliquia di un passato di conquiste ormai finito. E non è certo un caso isolato. Anche Raffaello ha subito lo stesso destino con il «Ritratto di Baldassarre Castiglione», un’opera che riesce a catturare la nobiltà d’animo del soggetto con un’eleganza che solo Raffaello poteva raggiungere. Quell’opera è prigioniera al Louvre.

E cosa dire de «La Belle Jardinière», altro dipinto capolavoro di Raffaello, sottratto e mai più restituito, che avrebbe dovuto essere uno degli orgogli di Firenze e che invece arricchisce le sale parigine? Non finisce qui. Anche il Perugino è stato vittima di questo saccheggio con il suo «Matrimonio della Vergine», un’opera dalla potenza narrativa straordinaria, oggi esposta, anzi «sequestrata» al Museo delle Belle Arti di Caen.

Questi non sono solo dipinti: rappresentano frammenti della nostra storia, della nostra cultura, strappati e confinati in un esilio dorato. Se dovessimo ragionare come i giudici della Corte dei Conti francese, ci sarebbero da rivedere molte cose. E forse, più che un museo, il Louvre di Parigi si rivelerebbe un ricettacolo di capolavori degno del miglior Arsenio Lupin.

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