L'Editoriale
Martedì 12 Marzo 2024
La stretta dell’Europa sui conti pubblici
MONDO. Lo scorso 10 febbraio i negoziatori del Parlamento e del Consiglio Ue hanno raggiunto un accordo sulla riforma del vecchio patto di stabilità.
In merito alle nuove regole definite, delle quali si parla molto in questi giorni e spesso a sproposito, sarebbe opportuno chiedersi se siano più o meno severe rispetto a quelle sospese nella primavera del 2020 a causa del Covid. Il nuovo accordo prevede che i Paesi con un debito eccessivo dovranno essere soggetti a una riduzione del passivo in media dell’1% all’anno se il debito è superiore al 90% del Pil e dello 0,50% se il debito è compreso tra il 60% e il 90% del Pil. Si tratta di disposizioni meno restrittive rispetto a quelle del precedente accordo, peraltro mai applicato, secondo cui ogni Paese, per garantire la sostenibilità del debito, lo doveva ridurre annualmente di 1/20 dell’eccedenza al di sopra del 60%. Risultano tuttavia più restrittivi i requisiti riferiti al rapporto deficit Pil, che in precedenza era stato fissato al 3% e che con la nuova riforma dovrà tendere all’1,5% del Pil, al fine di creare riserve di bilancio.
Ciò comporterà per l’Italia l’impossibilità di ricorrere al «deficit», così come avvenuto per l’ultima legge finanziaria (14 miliardi) e l’eventualità di essere assoggetta a una «procedura di deficit eccessivo», in quanto il deficit pubblico quest’anno e nel 2025 è previsto che tenda ben al di sopra del 3% del Pil (4,5%). Sull’applicazione di questi ultimi requisiti è prevalsa la consueta linea dura dei Paesi nordeuropei, che è stata fortemente contrastata da quelli più indebitati come il nostro. Questi ultimi hanno alla fine ottenuto che nel valutare le deviazioni rispetto al percorso stabilito la Commissione dovrà tenere conto degli investimenti già decisi in precedenza, in modo che il Paese interessato possa fornire argomentazioni contro l’applicazione di un’eventuale procedura. È stato inoltre previsto che ogni Paese membro potrà chiedere un’estensione del periodo di aggiustamento del bilancio - da quattro a sette anni - se realizzerà determinate riforme e investimenti che migliorino la resilienza e il potenziale di crescita, se sosterrà la sostenibilità del bilancio e se affronterà le priorità comuni dell’Unione che comprendono la transizione verde e digitale, la crescita economica e anche lo sviluppo delle capacità di difesa.
Non è stata accettata la richiesta di estendere il periodo di aggiustamento del bilancio a dieci anni, ma è stata prevista la possibilità di prolungare la vita degli stessi piani, di anno in anno, in presenza di circostanze eccezionali. Sul fronte degli investimenti è stata accolta la richiesta di escludere dal conteggio delle spese dei governi i fondi destinati a cofinanziare i programmi Ue, primi tra tutti quelli per la coesione. Questi fondi, unitamente a quelli strutturali europei, sono lo strumento finanziario principale attraverso il quale vengono attuate le politiche per lo sviluppo della coesione economica, sociale e territoriale e la rimozione degli squilibri economici e sociali. Rispetto alla proposta di riforma inizialmente avanzata dalla Commissione, gradita ai Paesi più indebitati, i Paesi del Nord - i cosiddetti «falchi» - hanno certamente recuperato terreno. Quella proposta avrebbe comportato che Commissione e singoli paesi potessero concordare un piano di rientro fatto su misura Paese per Paese.
I piani su misura sono stati confermati, ma i «falchi», non fidandosi di eccessive concessioni da parte della Commissione, hanno insistito affinché questi piani rispettassero i parametri rigidi predefiniti. In realtà, questi nuovi parametri non risultano particolarmente stringenti in materia di correzione dei conti e gli stessi Paesi del Nord si sono dimostrati meno spietati di quanto lo siano stati in passato. L’intesa raggiunta dovrà essere ratificata dal Parlamento e dal Consiglio europeo prima delle elezioni di giugno. Proprio questo importante evento, però, potrebbe indurre alcuni Paesi più indebitati a ostacolare tale ratifica, nella speranza che una nuova maggioranza nel Parlamento europeo possa rendere possibili ulteriori modifiche all’accordo in termini meno rigidi. La partita è quindi tutt’altro che terminata.
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