La nostra civiltà, i sintomi e le sfide

MONDO. Dobbiamo temere davvero che la civiltà occidentale, basata almeno concettualmente sulla libertà, i diritti, le regole, in nome della triade del 1789, possa prima o poi soccombere alla feroce sfida cui è oggi sottoposta dall’esterno e non meno pesantemente al suo stesso interno?

Abbiamo debellato il Covid, abbiamo dato le risposte giuste al rigurgito nazionalista della Russia, ma siamo dubbiosi, divisi, incerti, spesso contraddittori, anche solo perché la regola della libertà non significa pensiero unico, e per fortuna. Ma gli autocrati non hanno questo scrupolo, e i populisti possono essere battuti solo dalla forza dei fatti, ma lentamente, come nel caso del disastro Brexit o dell’illusione pentastellata. Possiamo persino permetterci l’anacronismo del sovranismo nell’era della globalità. Pretendiamo di relazionare non l’Europa, ma il Lussemburgo o la Lituania alla Cina, quando Francia e Germania sono microbi di fronte al gigante. Sono i lussi e le debolezze della libertà, ma ce li teniamo stretti, perché comunque li scegliamo con il voto, contando le teste, anziché spaccarle. E infatti ogni elettore in meno alle urne è un passo indietro.

Vladimir Putin l’aveva detto, paradossalmente in convinta buona fede: l’Occidente è marcio, basta una spallata per buttarlo giù, e por fine a regimi e stili corrotti e materialisti, realizzando una missione moralizzatrice e salvifica per l’umanità. Quasi 80 anni fa, George Orwell sosteneva «non scommetterei sulla sopravvivenza della civiltà», a cui peraltro lasciava qualche secolo prima di soccombere, ma è ben triste pensare che i valori della democrazia liberale e sociale non abbiano un futuro. Sono perfettibili, richiedono manutenzione e cambiamento, ma l’alternativa è il caos e la legge del più forte e più egoista, anche quando si definisce patriota.

Se utilizziamo il criterio usato dal più grande studioso della storia umana, Arnold J. Toynbee, e cioè una valutazione della possibile sorte di una civiltà in base alla sua capacità di risposta alle sfide interne ed esterne, è difficile essere ottimisti. La civiltà Egizia, a differenza di quella Maya, seppe vincere la sfida ambientale. Quella Romana cadde quando perse la capacità di reggere in modo lungimirante alla pressione dei nemici esterni. Quella Cinese ha saputo armonizzare le tensioni interne nell’unità, nel ricorso alle sue tradizioni, mentre quella Azteca è rimasta vittima delle sue contraddizioni cedendo ai conquistatori esterni, così come l’Impero Ottomano, incapace di modernizzarsi.

E noi? Noi Occidente (dal Canada all’Australia) siamo minoranza nel mondo e abbiamo perso la battaglia dell’esportazione della democrazia nei Paesi islamici, pur essendoci riusciti in grandi realtà come Giappone e India.

Nel nostro tempo globale dobbiamo fronteggiare, tutte insieme, le sfide che hanno travolto antiche civiltà, contro una ostilità crescente che nel Medio Oriente eccita le generazioni del futuro. Noi europei siamo giunti a odiare noi stessi, come sosteneva Ratzinger, per la rinuncia a conciliare fede e ragione, e preferiamo il conforto dell’ottimismo, che ci impedisce di vedere i pericoli.

È vero che, quando siamo messi alle strette, sappiamo reagire. Ma per istinto di conservazione, non per cercare nuove frontiere. Lo si è visto nelle elezioni europee, in cui i partiti tradizionali hanno retto, e anche in quelle francesi, che hanno respinto l’estrema destra, grazie ad un azzardo politico di Macron molto criticato ma che in alternativa aveva la resa. Ciò non toglie che non vada sottovalutato il segnale. Il pericolo, nel declino delle civiltà, lo abbiamo visto, viene soprattutto all’interno. Sarebbe sbagliato non misurare gli elementi di verità che sorreggono il vento populista, ignorare il disagio delle disuguaglianze, trascurare i sintomi della «malattia Trump». Le riforme sono la via. L’essenza del modello occidentale è la sua flessibilità. Usiamola per combattere le asprezze di questa era, se vogliamo salvare i nostri valori.

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