La giustizia e lo scontro, la saggezza di Mattarella

GIUSTIZIA. Un’ora di colloquio al Quirinale tra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, prima al Consiglio supremo di difesa per parlare del vertice Nato di Vilnius sulla guerra in Ucraina, e poi a quattr’occhi per affrontare il tema spinoso dei casi giudiziari che stanno tormentando il governo e FdI, che alimentano una nuova polemica tra maggioranza politica e parte della magistratura, che mettono in discussione le già molto discusse norme della riforma della giustizia firmata da Nordio.

È facile intuire che a Mattarella siano piaciute le parole con cui la presidente del Consiglio a Vilnius ha stemperato i toni dello scontro prendendo chiaramente le distanze dalle dichiarazioni di Ignazio La Russa in difesa del figlio accusato di stupro e in implicita critica alla ragazza che denuncia di essere stata violentata. Meloni dice che al posto del presidente del Senato «non sarebbe intervenuta nel merito della questione» e che, pur comprendendo il dolore di un padre, da madre tende a solidarizzare semmai con la ragazza che ha denunciato la violenza sessuale. Poche parole per mettere una distanza tra il governo e il più «pesante» esponente di Fratelli d’Italia invischiatosi (in gran parte da solo) nella vicenda del figlio.

Mattarella apprezza e continua a consigliare prudenza anche se questo colloquio con Meloni è avvenuto nel giorno in cui il Capo dello Stato ha ricevuto al Quirinale i vertici della Cassazione, e questo a molti è apparso un segnale di solidarietà nei confronti dei giudici accusati dalla nota ufficiosa di Palazzo Chigi di fare campagna elettorale contro il governo e di assumere un ruolo surrettizio di opposizione. Ma la stessa premier sa, e lo dice, che non si può trascorrere un’estate a difendersi un giorno per la storia di La Russa, un altro per la Santanchè e un altro ancora per Delmastro, guarda caso tutti e tre esponenti del partito del premier. Si dice che soprattutto Santanchè sia ormai isolata all’interno di FdI, si nota il diradarsi delle dichiarazioni di solidarietà, si conta il numero decrescente di inviti a iniziative di partito (a «Piazza Italia», manifestazione della destra romana, non sono stati chiamati a parlare né la ministra del Turismo né il presidente del Senato). Il punto è se dovesse arrivare un rinvio a giudizio per la Santanchè: in Transatlantico la voce comune è che in quel caso Meloni finirebbe per chiedere le dimissioni alla sua ministra e amica sperando che un gesto del genere allontani la tempesta dal governo e, in definitiva, anche da La Russa, che è pur sempre la seconda carica dello Stato.

I soliti dietrologi osservano che Santanchè e La Russa sono la coppia d’oro dell’arrembante potere della destra in Lombardia, allargatosi a dismisura dopo le ultime elezioni tutto a scapito della Lega. E i medesimi ne deducono che la freddezza con cui Salvini e i suoi stanno trattando le disavventure dei loro potenti alleati è anche frutto di un certo calcolo, o meglio di una speranza di ricrescita nella regione che è stata la culla del leghismo bossiano.

Peraltro in queste ore il governo deve trovare un accordo anche sulla riforma della giustizia targata Nordio: il sottosegretario di Palazzo Chigi Alfredo Mantovano, silenziosissimo braccio destro di Meloni ed ex magistrato, ha stroncato senza troppi giri di parole l’intenzione del Guardasigilli di modificare il concorso esterno in associazione mafiosa, il reato-simbolo della lotta antimafia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. «Non è una priorità» ha detto il sottosegretario con il tono di chi emette una sentenza inappellabile. Anche questo fa parte del tentativo di Meloni di raffreddare gli animi ed evitare di tornare agli anni della guerra con le «toghe rosse» di berlusconiana memoria.

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