Industria e resilienza: l’Ue deve ripensarsi

MONDO. Uno spettro si aggira per l’Europa: la deindustrializzazione. L’accordo quadro per salvaguardare l’area industriale ex Bluetec a Termini Imerese, salutato positivamente in queste ore da Governo e sindacati, non deve far perdere di vista tale rischio.

Ben inteso, una qualche riduzione del peso delle produzioni industriali a favore della crescita del settore terziario è fisiologica nelle economie più mature, ma tempi (rapidi) e modalità (distruttive e senza progettualità) della deindustrializzazione nel nostro continente obbligano le classi dirigenti a un supplemento di riflessione. Qual è il destino per milioni di lavoratori che non possono «convertire» le proprie carriere con uno schiocco delle dita? Quale autonomia strategica è davvero possibile senza una base manifatturiera? E quale futuro per tutta una serie di campi di ricerca e di professionalità per i nostri giovani? Si tratta di domande presenti, da almeno un decennio, nel dibattito statunitense, dove sono state seguite da tentativi di trovare soluzioni - non sempre di successo -, anche attraverso le politiche pubbliche. E in Europa, invece?

Tutto l’Occidente si trova di fronte alla stessa tendenza: la Cina è diventata «l’unica superpotenza manifatturiera del pianeta», sostiene l’economista Richard Baldwin, visto che «la sua produzione supera quella degli altri 9 principali Paesi manifatturieri messi assieme». Un’avanzata che procede a scapito di una (spesso disordinata) ritirata altrui. In quanto a produzione industriale, Pechino nel 1995 era ancora di poco avanti rispetto a Italia e Francia, poi con un balzo ha superato Germania (1998), Giappone (2005) e Stati Uniti (2008). Da allora ha addirittura doppiato Washington, si legge in uno studio del think tank Cepr. Se invece della produzione consideriamo il valore aggiunto della manifattura mondiale (cioè il valore della produzione meno i costi degli input intermedi), al 2020 la Cina pesa per il 29% del totale, gli Stati Uniti per il 16%, il Giappone il 7%, la Germania il 5% seguita dagli altri Paesi europei (come l’Italia col 2%). L’export industriale cinese è decollato quasi con la stessa velocità: era pari al 3% dell’export manifatturiero globale nel 1995, è arrivato al 20% nel 2020. Ancora più radicale è stato, nello stesso arco di tempo, il mutamento della tipologia di merci esportate. Solo nel 2005 Bruxelles negoziava a fatica con Pechino un armistizio temporaneo nella cosiddetta «guerra dei reggiseni», oggi Bruxelles vara dazi limitati e tardivi per frenare l’automotive made in China ed è dipendente da Pechino per prodotti come batterie, pannelli solari e pale eoliche.

Mentre noi europei a Lisbona, nel 2000, annunciavamo in maniera roboante di voler diventare in dieci anni «l’area più competitiva del mondo», con una «nuova economia» basata sulla conoscenza, insomma, la sfida cinese sulla manifattura si è spostata dalla biancheria sottocosto alla tecnologia di frontiera.

In un contesto simile, colpisce come sia caduto sostanzialmente nel silenzio il recente j’accuse di uno dei maggiori rappresentanti dell’industria nazionale, Francesco Buzzella, presidente di Federchimica; «Bisogna cercare di rispondere chiaramente ad alcune domande - ha detto al Sole 24 Ore -. Crediamo nel futuro dell’industria in Europa? Vogliamo continuare a essere un’area di rilevanza mondiale per la manifattura?». Quesiti provocatori ai quali Buzzella ha affiancato dati non entusiasmanti sull’Italia (la seconda manifattura d’Europa, certo, ma nel 2022 «la produzione si è contratta del 4,1%» e nel 2023 «la contrazione è stata del 6,7%») e addirittura allarmanti sul continente: «Il 75% degli impianti chimici che chiudono sono in Europa. Questo vuol dire che se nel mondo chiudono 100 impianti, 75, i tre quarti quindi, sono in Europa. La produzione chimica europea rappresenta il 10% a livello globale, ma stiamo assistendo all’avanzata di Paesi asiatici: la Cina fino a pochi anni fa pesava il 5%, oggi il 45%». E infine: «Mi sembra che la deindustrializzazione dell’Europa sia già in corso da qualche anno e stia proseguendo in modo preoccupante».

Oltre all’avanzata cinese, ragiona Buzzella, pesano soprattutto i danni che l’Europa si autoinfligge, tra obiettivi ambientali «irraggiungibili» e quadri regolatori spiazzanti per gli investimenti. A Bruxelles è forse venuto il momento di ripensare certe parole d’ordine. Citando lo studioso e saggista americano-libanese Nassim Taleb, se nei secoli siamo arrivati a essere quello che siamo, non lo dobbiamo tanto alla nozione di resilienza, né al merito dei policy maker, bensì «alla propensione al rischio e all’errore di una certa categoria di persone che dobbiamo incoraggiare, proteggere e rispettare». In breve: per l’industria europea meno resilienza, più rischio e sussidiarietà.

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