L'Editoriale
Lunedì 17 Luglio 2023
Il salario minimo produttività più robusta
ITALIA. In Italia il 23% dei lavoratori guadagna meno di 9 euro all’ora. Tradotto in retribuzione mensile sono 1.300 euro netti al mese. Ma spesso il lavoro è saltuario e la precarietà procura salari mensili a intermittenza. Le retribuzioni italiane sono tra le più povere in Europa. È un fatto.
Troppi i costi extra che pesano sull’attività economica. L’energia, la burocrazia amministrativa che fa perdere tempo e a volte anche la voglia di fare, la scarsa digitalizzazione, il ritardo nelle energie rinnovabili (la mancanza di punti di ricarica per esempio paralizza il mercato delle auto elettriche), le infrastrutture carenti dove non si vede quel punto di svolta che il crollo del Ponte Morandi a Genova nel 2018 quotidianamente evoca. Sono voci che pesano nella formazione del prezzo del prodotto e la via di uscita spesso è rappresentata dalla variabile del lavoro. Molte imprese italiane riescono a stare sul mercato solo per i bassi costi della manodopera. Eppure se si ascoltano gli operatori è difficile trovare manovali, muratori così come camerieri e pizzaioli.
Se dovessimo seguire le leggi della domanda e dell’offerta i salari dovrebbero salire ma non è così. Nei settori lavorativi di competenza si lamenta la propensione della platea di potenziali lavoratori ad utilizzare i vari sussidi contro la povertà, la disoccupazione ecc. a snobbare le proposte di lavoro. Ma va pur detto che nel tempo si è affermato l’idea che il lavoro manuale oltre ad essere faticoso è socialmente improprio perché definisce una collocazione bassa nella compagine sociale. Per giovani che faticano a trovare la loro strada meglio la mancetta dei genitori e dei nonni che farsi i calli alle mani. Troppe le scorciatoie per inseguire l’illusione di una brillante carriera senza sacrificio. È un approccio che spesso le famiglie condividono nella speranza di riservare ai loro rampolli un futuro meno travagliato delle generazioni precedenti. Quella vecchia guardia per intendersi che ha fatto l’Italia un Paese industriale. La deindustrializzazione nasce anche da qui, ovvero dalla mancanza di stimoli per immaginarsi un’Italia migliore che affronta le sfide della rivoluzione tecnologica e del cambiamento climatico. Non che manchino gli ideali semmai mancano i progetti perché questi si realizzino. Il risultato è che chi vuole migliorare ed è disposto a lavorare va all’estero. Come dice il presidente Mattarella, «il saldo tra chi entra e chi esce nel nostro Paese rimane negativo, con conseguenze evidenti sul calo demografico e con ricadute sulla nostra vita sociale». Mancano non solo manovali e lavoratori generici ma soprattutto ingegneri, medici, fisici, informatici, matematici. I migliori fra quest’ultimi, tutte persone che hanno studiato in Italia, sono costretti a portare il loro plusvalore all’estero. E del resto la struttura industriale italiana non conta grandi gruppi in grado di creare quel tessuto favorevole alla competizione e quindi al miglioramento della produttività. Per la ricerca e l’innovazione oltre alla mano pubblica ci vuole l’industria privata e le piccole e medie aziende non hanno le risorse necessarie per affrontare i grandi investimenti richiesti.
Comunque il dato di fondo, anche con la più grande buona volontà è che per un piccolo e medio imprenditore risulta difficile corrispondere retribuzioni in linea con la media europea. I 12 euro all’ora del salario minimo in Germania sono un miraggio. E pur tuttavia un minimo a 9 euro all’ora in Italia è auspicabile. E la ragione è duplice: da una parte induce le imprese a migliorare la loro produttività e a non farne cadere i costi solo sulle spalle dei lavoratori e dall’altra lo Stato non può più sottrarsi all’ impegno di rendere efficienti i suoi servizi.
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