“S a, il punto è questo, professore. In un paese come il nostro le occasioni, per così dire, culturali non sono moltissime”. È pomeriggio avanzato. Il buon Elvio ha finito di preparare la lezione della sera per quelli che fra sé chiama “i mei teologi” ed è uscito per una piccola spesa: un po’ di formaggio (in Langa ne ha trovati di pericolosamente squisiti), un po’ di insalata, un po’ di bunet (c’è un negozio di alimentari che lo vende a fette, produzione propria, paradisiaco). La luce è tipica di febbraio, prolungata, d’ambra, con dentro una silenziosa promessa di carnevale: arriveranno i bimbi in maschera e i coriandoli, in un tramonto non diverso, fra pochi giorni. Don Attilio lo ha incontrato sulla piazza e lo ha invitato a bere un caffè. Lui ha accettato e ora siedono nel bar di Claudio. I due caffè sono diventati due chinotti, ma questo è un dettaglio. Il parroco ha in mente una proposta da un po’ di tempo e gli sembra il momento giusto per esporgliela. Il professor Caudano dalla premessa teme di aver capito. E ascolta più preoccupato che lusingato. “In un paese come questo, che cosa vuole, si organizza qualcosa ogni tanto, ma non ci sono le forze. Ora, mi perdoni, ma io da un po’ di tempo penso che lei sia esattamente una forza, una risorsa piovuta dal cielo”. “Ci siamo”, dice fra sé il mite Elvio. E mentre lo pensa, pensa anche alla casa che gli viene lasciata gratuitamente.