V incere è dolce, e il professor Caudano non lo sapeva. Lo impara in una notte di Langa in cui maggio è immusonito come un marzo qualsiasi. Ma lo impara. La combriccola degli amici tifosi è arrivata per il fischio d’inizio e si è sciolta dopo le dichiarazioni di Gasperini, non proprio apprezzate da un paio di interisti, quando il riferimento alle squadre che vincono indebitandosi è risuonato nel soggiorno. Attendevano, sul tavolo, del passito e una torta di nocciole, il che ha spento sul nascere le polemiche, di cui, del resto, nessuno aveva voglia. Rimasto solo - rimasto “finalmente” solo, avrebbe detto lui, incorreggibile - il buon Elvio è uscito a camminare. Perché dormire non poteva proprio. Voleva gustare la vittoria, la sconosciuta; e ripensarla, guardarla negli occhi. La notte era umida e quasi fredda. Il cielo illune e ignaro di stelle. Difficile, ma non impossibile, scorgere il profilo lontano delle colline. Per un perdente come lui, vincere è la più inconsueta delle venture, e lo sa. Sente che deve scegliere. O farsi del male con scorticante realismo, e pensare che in fondo anche questa volta non è lui ad aver vinto, che per lui nulla cambia, che lui resta se stesso, che non ne avrà vantaggio alcuno, che non è neppure andato a Dublino e che la sua vita sospesa fra solitudine e incubo di tornare a scuola tale resterà. Oppure abbandonarsi alla gioia. E forse con eguale legittimità lasciarsi essere felice, dirsi che ha vinto anche lui, nella sua lunga fedeltà a una piccola squadra, nelle stagioni spese a seguirla in campionati anonimi, in partite poco significative, in interpreti mediocri, nell’amore innocente e incondizionato a una maglia, a una terra, ai presidenti, agli allenatori, ai calciatori.